«Un giorno, in una famiglia, nacque un figlio inadatto». È questo l’incipit del romanzo Adattarsi della scrittrice francese Clara Dupont-Monod (Parigi, 1973) che, dopo quell’ingresso scarno fra le stanze e il patio di una casa, lascia precipitare le emozioni e la storia fra le fessure di alcune pietre di un muretto. Sono loro, infatti, quasi come in un coro greco del teatro antico, a essere le testimoni dei fatti: rappresentano l’imperturbabile voce narrante e raccontano ciò che accade, catapultando chi legge in una dimensione a tratti fiabesca.
I protagonisti, da quel momento, saranno sempre senza nome: «il maggiore», «la minore», «l’ultimo», secondo l’ordine della loro venuta al mondo. Sono uniti da una fratellanza spinosa, chiusi ognuno in un labirinto di sentimenti contrastanti, in cui amore disinteressato e disgusto di danno il cambio. Il «figlio inadatto» interrompe il fluire abitudinario del quotidiano, è una creatura delicatissima, di cristallo, uno specchio terapeutico in cui si riflettono tutti i componenti della famiglia. Per un po’ di tempo, rimane in vita tramite l’accudimento degli altri, soprattutto del «maggiore», fratello che accoglie su di sé la sua fragilità, stabilendo una relazione affettiva e simbiotica con il bambino. In mezzo, c’è la sorella (un tempo «la minore»), non riesce a gestire la rabbia che la travolge ed è vittima di una scomoda posizione a rischio invisibilità. «L’ultimo», colui che arriva dopo a occupare uno spazio lasciato vuoto prematuramente (quindi scontando il dolore di chi resta), prova un’altra strada: cerca di esistere, avvolto nello stupore per la bellezza della natura e strappando racconti sul passato misterioso che si è posato, come una coltre, nei silenzi intorno a lui.
Adattarsi (edizioni Clichy, pp.160, euro 17, traduzione di Tommaso Gurrieri) è un libro che ha molte consonanze con il tema che quest’anno attraversa Più libri più liberi: quel «perdersi e ritrovarsi», nucleo intorno al quale si apre oggi alla Nuvola la fiera dell’editoria nazionale della piccola e media editoria, di cui Clara Dupont-Monod sarà ospite sabato 10, alle 15.30, in Sala Vega. «Questo libro è nato da un’esperienza personale. Abbiamo avuto, nella mia famiglia di origine, un bambino disabile. Anche lui è morto più o meno alla stessa età del protagonista del romanzo. Tuttavia, non sono riuscita a immaginare questa esperienza come un vissuto triste. Ho amato la vicinanza con una persona così diversa, mi ha permesso di uscire dalla mia comfort zone», spiega la scrittrice.

Adattarsi alla differenza: in una famiglia dove nasce un bambino con bisogni speciali, che va sempre curato (e non sempre tutti se ne dichiarano capaci) possiamo dire che sia la sostanza di un romanzo di formazione?
Ritengo che qualsiasi romanzo lo sia. Credo profondamente che la letteratura guidi la nostra vita, ci aiuti se non a crescere almeno ad andare avanti. I fratelli che descrivo vedono il loro equilibrio messo in crisi da un evento esterno, la nascita del figlio con handicap. Dopo, bisognerà impegnarsi per trovare un’altra armonia. Volevo anche raccontare la forza della fratellanza: come la pietra, è qualcosa di molto solido su cui puoi appoggiarti per costruire nuovi muri a secco.

Lo sviluppo della sua storia ci avverte sull’esistenza di tante vulnerabilità, non solo fisiche e cognitive…
Il confronto con una diversità così drammatica porta con sé molti interrogativi. La domanda principale che i fratelli devono affrontare è: se ci si deve adattare in qualche modo al disadattato, allora chi è davvero il più disadattato? Quando la sorella cerca di portare in grembo il bambino non ci riesce, in quel momento è più disabile di lui. Il mio desiderio è mettere in discussione la norma, questa gentile tirannia che ci assegna un posto. La regola è fissa, la vita è in movimento. È la vita, e non la norma, che ci offre un posto, costringendoci a fare appello alle nostre forze sconosciute. In altre parole, le sue prove ci legittimano a essere lì, in piedi, valorosi, a occupare il famoso «nostro posto».

La onniscienza del narratore è affidata qui alle pietre di un muretto, punto di vista privilegiato da cui osservare tutti i comportamenti famigliari. Come mai questo eccentrico espediente di scrittura?
Mi hanno concesso di mantenere la giusta distanza sulla narrazione, di evitare il pathos. Immagino le pietre come vecchie signore che sanno ogni cosa e che un giorno ci sopravviveranno. D’altra parte, chi scrive è una di quelle persone che, quando passa accanto alle rovine, sospira: «Ah, se le pietre potessero parlare…». Nelle Cévennes, come in altre regioni del Sud, spesso i muri sono costruiti «a secco»: significa che le pietre stanno in piedi da sole, sostenendosi a vicenda. Rappresentano i fratelli e, più in generale, la famiglia. So bene che la famiglia può essere il luogo in cui si vivono i peggiori orrori e la letteratura lo ha espresso con grande coraggio. Ma ha anche i suoi lati positivi. È un elemento portante, una struttura per le fondamenta. Lo abbiamo potuto verificare durante il lockdown del Covid: tutti hanno temuto per i propri antenati e gli anziani più fortunati si sono rifugiati nelle case dei loro cari. Di fronte al pericolo, quel tipo di legame ha rivelato la sua importanza. Mi è stato detto che Adattarsi non è molto moderno da questo punto di vista, che il mio è un omaggio un po’ «old school». Forse. Se fare affidamento sulla famiglia è qualcosa da vecchia scuola, allora sì, è vero per me!

I personaggi non hanno nomi, sono ricordati solo  con la posizione che occupano, attraverso il loro ruolo. Simboleggiano dunque «funzioni universali»?
La trama del romanzo era specifica: la nascita di un bambino disabile e il rapporto con i suoi fratelli è un tema ampiamente utilizzato in letteratura. Anche il luogo in cui tutto accadeva era specifico pur se poco conosciuto, le Cévennes. Così come il punto di vista: le pietre parlanti non sono comuni. Pertanto, di fronte a questo cumulo di specificità serviva una pagina bianca, qualcosa di più universale, che potesse controbilanciare. Ecco perché i personaggi non hanno nomi, La prima frase del romanzo riecheggia il «C’era una volta…» di fiabe e leggende.

Il terzo fratello, «l’ultimo», è una figura interessante. È costretto a confrontarsi con un fantasma. Come si adatta, appunto?
Cercando di non scontrarsi con la realtà. Il suo posto non è confortevole. È figlio di una lunga convalescenza, si sente in colpa, convive con la domanda: «se tu non fossi morto, sarei nato?». Ma non cerca di combattere, non si ribella. Prende ciò che la vita gli dona. Sa che la sua situazione non potrà mai cambiare e così fa del suo meglio. Si prende cura dei suoi genitori, si avvicina al fratello, comunica con la sorella. È un bell’esempio di valore silenzioso.