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Oltre il vestito, il gender

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ManiFashion La moda uomo tenta di cambiare e mentre perpetua le sue forme in alcune punte più creative si spinge a concettualizzare un annullamento di genere che oltrepassa il vecchio concetto […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 gennaio 2015

La moda uomo tenta di cambiare e mentre perpetua le sue forme in alcune punte più creative si spinge a concettualizzare un annullamento di genere che oltrepassa il vecchio concetto di unisex e arriva finalmente a insistere su un concetto di civiltà: l’abito non può definire un genere sessuale, prima di essere uomini e donne siamo persone.
Il progetto, però, non è chiaro e quindi nasce un sospetto: dove finisce il concetto e inizia l’opportunismo? In un momento in cui la moda parla in un affollato scontro di opinioni più simile al talk show che all’agorà, i concetti rischiano di essere confusi e banalizzati, soprattutto se per analizzarli non si usano le parole appropriate.
Alla fine delle sfilate di Milano per la moda uomo del prossimo inverno, si possono trarre alcune conclusioni. La prima è che la moda continua a guardare ai mercati ricchi e, per questo, tende a fare della qualità la vera discriminante: più è elevata, più si alza il prezzo, più si vende. È la logica del sistema.

 

 

Ma se questo è ormai dato per scontato, quello che ha provocato alcuni pruriti ai puristi della mascolinità è la tendenza a trasferire nell’abbigliamento maschile elementi di quello femminile, vestendo uomini e donne con gli stessi capi e lasciando alla sensibilità personale la volontà o meno di definirsi.
Di questo parlano, con sfumature diverse, molti designer. Giorgio Armani, per esempio, che questa operazione l’ha fatta già negli Anni Ottanta sulla donna, si smarca dalle facili spettacolarizzazioni precisando che «è facile che una donna resti una donna se indossa abiti di foggia maschile ma non è possibile il contrario», e perciò disegna giacche e pantaloni uguali per i due sessi.

 

 

 

Il problema nasce quando si deve analizzare la ricomparsa della tendenza, già sperimentata dal Glam Rock Anni 70, che vuole superare la definizione di genere andando oltre il genere. A provocare la fuga dell’intelligenza dalla penna dei commentatori è bastato, infatti, che Gucci abbia mandato in passerella una collezione preparata in una settimana dall’ufficio stile con a capo Alessandro Michele (nominato nuovo direttore creativo dopo l’uscita anticipata di Frida Giannini) che mischia completamente i generi in una scelta di convivenza. Le bluse di pizzo o di seta e i sandali indossati con i calzettoni pesanti hanno provocato titoli come: «L’uomo di Gucci? Una modella vestita da uomo», e commenti che parlano di trionfo del «femminiello» (sic!), in una scorrettezza di linguaggio che da sola basterebbe a qualificare chi lo usa.

 

 

 

In questo caso, l’aggravante è l’incapacità a comprendere un fenomeno niente affatto nuovo nella moda e che Hedi Slimane, da due anni direttore creativo di Saint Laurent, ha portato al successo commerciale nel plauso generale.
In questa confusione di linguaggi e di significati, in questa Babele della banalità in cui ognuno esprime la propria opinione senza appoggiarla a regole comprensibili e condivise, Miuccia Prada appare come una linguista che cerca di mettere ordine nei concetti, nelle parole e nella grammatica, portando la sua visione della moda maschile a un’essenzialità che rasenta il rigore del ragionamento.

 

 

Come a voler pulire le troppe sovrastrutture su cui si regge oggi la moda, la sua collezione tutta in nero appare come un appello alla necessità di una chiarezza di argomentazione. Dimostrando da un lato che parlare di maschile al femminile è un puro pretesto opportunistico se alla base non c’è una riflessione: che uomo e donna tali restano, anche se indossano gli stessi abiti. Il genere sessuale è, a prescindere, libero e personale. E non ha bisogno di vestirsi.

manifashion.ciavarella@gmail.com

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