Al limite dei sessanta anni di carriera, l’enigmatico Bob Dylan pubblica un nuovo album, avviandosi per strade dure e turbolente, Rough and rowdy ways (Columbia/SonyMusic) il titolo ispirato all’album omonimo del country singer Jimmie Rodgers raffigurato nella retrocopertina, disponibile da venerdì 19 su piattaforme digitali, doppio cd e vinile. Proprio per alleviare il cammino difficile di questi tempi di pandemia globale, il musicista di Duluth (nel Minnesota, lo stato dei 10.000 laghi, capitale Minneapolis dove è stato ucciso dal ginocchio sul collo di un poliziotto l’afroamericano George Floyd, «Vedere George torturato a morte in quel modo mi ha nauseato», dice «È una cosa indescrivibile. Speriamo che arrivi prontamente giustizia per la famiglia di Floyd e per la nazione») aveva fatto uscire direttamente su Youtube a fine marzo Murder Most Foul, il delitto più scellerato, una potente elegia di 17 minuti sull’assassinio di John Kennedy, la perdita dell’innocenza della generazione dei baby boomers che sognavano di cambiare la società americana, tra i Beatles e Marilyn Monroe, l’era dell’Acquario e i radio days, «l’anima di una nazione è strappata via e sta cominciando lentamente a marcire». Il secondo brano a sorpresa, inviato il mese successivo, I Contain Multitudes, citazione dell’amato Song for Myself di Walt Whitman, («Do I contradict myself?/ Very well then I contradict myself/ I am large, I contain multitudes») una ballata tristemente umoristica mettendo in fila Anna Frank, Indiana Jones e i Rolling Stones. «I Contain Multitudes è più simile a una scrittura in stato di trance. Anzi, non è che è simile, è proprio scrittura in stato di trance. È come percepisco realmente le cose. È una di quelle cose in cui accumuli versi da flusso di coscienza, e poi li lasci riposare e ci tiri fuori delle cose – ha detto Dylan in una rara e lunga intervista concessa al New York Times- In quella canzone in particolare, gli ultimi versi sono venuti per primi: è il punto di approdo di tutta la canzone. Ovviamente, il catalizzatore della canzone è il titolo. È uno di quei pezzi che scrivi d’istinto, quasi in stato di trance. La maggior parte delle mie canzoni più recenti sono così. I versi sono la cosa reale, tangibile: non sono metafore. Le canzoni sembrano conoscere sé stesse, e sanno che io sono in grado di cantarle, vocalmente e ritmicamente. In un certo senso, è come se si scrivessero da sole e poi si affidassero a me per cantarle».

ENTRAMBI i brani sono contenuti in questo nuovo disco, arrivato otto anni dopo il superbo Tempest, il 39esimo album, con dieci pezzi, per un totale di 71 minuti, in gran parte con voce impostata in primo piano, giochi di parole e tutto un corredo di citazioni, rimandi e allusioni, in grado di impegnare a lungo gli esegeti dylanologi di mezzo mondo per questo zibaldone pop con protagonisti letterari affianco di eroi reali. L’atmosfera generale è abbastanza cupa, da commiato individualista, da memoria del passato in uno snodo della storia con scossoni e strappi, dove il cavaliere nero aleggia tra i solchi (Black rider ha un tono d’invocazione con un mandolino serpeggiante, evitando brillantemente la retorica). L’album è intenso, di grande qualità, sostenuto da blues appuntiti e provocanti, dal ripasso della grande tradizione melodica americana (i tre volumi di standard degli ultimi anni, Shadows in the Night, Fallen Angels e Triplicate), dalle sue passioni musicali tutte radicate negli anni ’50 o poco dopo.

IL NOSTRO CANTASTORIE preferito, alla vigilia delle ottanta primavere (è nato il 21 maggio 1941), si sente Cesare alla scelta decisiva, cantando il ruvido Crossing the Rubicon con la chitarra di Charlie Sexton a disegnare nitide geometrie. «three miles north of purgatory – one step from the great beyond / I prayed to the cross, and I kissed the girls, and I crossed the Rubicon» (Tre miglia a nord del purgatorio, un passo dal grande aldilà / Ho pregato la croce e ho baciato le ragazze, e ho varcato il Rubicone). Oppure si mette nei panni di Virgilio scendendo nell’oltretomba in False Prophet, il terzo singolo pubblicato, con l’aiuto di antiche ragazze rock’n’roll, Mary Lou (da Ricky Nelson) e Miss Pearl (da Jimmy Wages) per andare avanti tra rabbia, amarezza e dubbio fino ai versi autobiografici «I’m the enemy of the unlived meaningless life/ I ain’t no false prophet/I just know what I know/ I go where only the lonely can go» (Sono nemico della vita senza senso non vissuta / Non sono un falso profeta/ so solo quello che so/ vado dove solo le persone sole possono andare). E non poteva mancare Omero, rapsodo sottotraccia in Mother of Muses, l’evocazione di personaggi importanti, da raccontare per tutta la giornata. Tra i riferimenti spiccano Goodbye Jimmy Reed, l’omaggio in 12 battute al pioniere del blues elettrico del Mississippi e quello ai suoi storici compagni di viaggio, richiamati in Key West , una lunga ballata con fisarmonica e batteria «I was born on the wrong side of the railroad track/Like Ginsberg, Corso and Kerouac» , l’isola alla fine del viaggio, la punta meridionale degli Stati uniti, l’itinerario sognante di un miraggio, di quel grande blu alla fine di tutto. «Key West is the place to be if you’re looking for immortality/ stay on the road, follow the highway sign/ Key West is fine and fair/ if you’ve lost your mind, you’ll find it there/ Key West is on the horizon line».