Quando analizza la relazione tra le fantasie diurne e i sogni infantili da cui derivano, Freud la paragona al «rapporto che unisce alcuni palazzi barocchi di Roma con le antiche rovine, i cui pavimenti e le cui colonne hanno fornito i materiali per le strutture più recenti». Il passaggio mi torna in mente — precisamente, nella versione di Remo Remotti in Sogni d’oro — scendendo gli scalini del Cavern Club di Liverpool, ricostruito nel 1984 una trentina di metri a ovest dall’originale dei ricopre parte della pianta riutilizzando molti dei mattoni originalimolito undici anni prima, di cu.
Gli stessi redbrick su cui sono incisi i nomi di chi ha calcato quei palchi materializzano una storia musicale cittadina edificata attraverso una costante sovrapposizione di blocchi culturali e stilistici: i Beatles e il Merseybeat degli anni Sessanta rinnegati dalla scena punk di Eric’s (aperto nel 1976 nei locali in cui aveva trovato provvisorio alloggio lo stesso Cavern e anch’esso legato alle sue rovine); la new wave e la black music dei turbolenti Ottanta; la dance a cavallo dei due secoli e le scene techno e hip hop che dopo il Duemila spostano il baricentro da Mathew Street a Ropewalks.
A Liverpool la musica non si limita a raccontare la città, la erige. Ne marca la storia politica e sociale, facendone un caso di studio ricco di singolarità ma anche di fattori comuni a diverse latitudini e a differenti scene. Un concetto, quest’ultimo, da intendersi in senso spaziale, sonoro e identitario, per designare contesti, eventi, attività e stili attorno ai quali si raggruppano soggetti legati da interessi musicali collettivamente distintivi. Tracce del passato (Beatles) e squarci su un (possibile) futuro

ALLA BASE di tutto, ci sono sempre le reti sociali che da sempre si intersecano in quella che, pur non essendo una metropoli, ne ha l’attitudine: attraverso gli influssi irlandesi, ma anche continentali, americani, asiatici e africani, lo stesso porto che nel diciottesimo secolo aveva dato alla città il tragico primato di capitale europea del commercio di schiavi diventa approdo per una nuova reputazione, che trova nella musica la sineddoche di quella multiculturalità tipica di tante città portuali. Amburgo, New York, Shanghai, direbbero qui; Napoli, pensa chi scrive. I nomi sui mattoni di Mathew Street tracciano le varie fasi di ascesa, decadenza e rinascita che hanno segnato la storia cittadina dal secondo dopoguerra a oggi, ognuna delle quali è intimamente legata a una stagione musicale. I gloriosi anni Sessanta sfumano in una recessione segnata dalla deindustrializzazione (350 fabbriche chiuse o delocalizzate dal 1966 al 1977) e dal calo demografico (-30% dal 1961 al 1981); gli scontri etnici e la rivolta di Toxteth (1981) segnano il punto più basso di una crisi sociale ben più grave che in ogni altra città britannica, a cui la Thatcher risponde con l’odiosa politica del managed decline: lasciare affondare Liverpool per poi ricostruirla e assoggettarla. Eventi di cui la musica del tempo riesce spesso a dare avvisaglie, come dimostra il repentino cambio d’umore dei The Real Thing, passati nel giro di un anno dal disimpegno danzereccio di You To Me Are Everything (1976) alla presa di coscienza di Children Of The Ghetto (1977), dallo status di giovani Scouser a quello di Black British.

Un concerto al Cavern Club, foto Getty

Ma anche per la «white working class» i modelli a chilometro zero forniti in quegli anni da Echo & the Bunnymen, Dead or Alive e Frankie Goes to Hollywood vanno ben oltre l’intrattenimento. «Tanto vale prendere una chitarra piuttosto che sostenere esami, dal momento che le possibilità di trovare lavoro sono esattamente le stesse» scrive Sara Cohen in Decline, Renewal and the City in Popular Music Culture – Beyond The Beatles: negli anni più bui la musica è un mezzo per legittimare la propria esistenza, rivelandosi poi uno dei motori della resurrezione socioeconomica di fine Novecento, preludio al ben più felice titolo di capitale europea della cultura del 2008 e a quello di città della musica sancito dall’Unesco sette anni dopo (anche in virtù dello sviluppo di quel turismo beatlesiano che non ha precedenti nel nostro continente).
Dopo sessant’anni, Mathew Street è ancora il cuore di una città in cui l’offerta di musica live è aumentata in maniera esponenziale, come confermano i dati del Live Music Mapping Project, studio collaborativo tra varie istituzioni europee (tra le città mappate anche Milano, Amburgo, Rotterdam, Birmingham, Newcastle, Edimburgo) che esamina i cambiamenti nell’economia musicale su scala globale e locale con l’obiettivo di informare il pubblico e stimolare i decisori politici.

SONO OLTRE cinquecento le venue censite tra i sei distretti della Liverpool City Region: un muro del suono che invade club e pub, ma anche sale da concerto, arene, spazi all’aperto, per una capacità di oltre 445 mila persone. Circa la metà di questi luoghi hanno visto la luce nell’ultimo decennio; soltanto una trentina le chiusure, in gran parte dovute alla pandemia. Cavern Club, Jacaranda, Zanzibar, M&S Arena, Kazimier Garden (ciò che resta dell’indimenticato locale chiuso nel 2016) sono solo i nomi più noti; ognuno dei quali innesca memorie di esperienze musicali collettive, incorporate nel vissuto cittadino ed embrione per nuove scene destinate a sovrapporsi agli strati precedenti. Ma quando il volume si abbassa emergono le voci di chi quegli spazi li abita, ne ricorda i fasti, le sconfitte, le rinascite, e ne presagisce il futuro. Tre, gli spettri più inquietanti. La digitalizzazione, che rimodella le città della musica e lo stesso concetto di scena. La musealizzazione, che soprattutto dopo la pandemia si lega alla prima rischiando di uniformare l’offerta musicale allo sguardo del turista ritrovato e alle sue aspettative mediatiche.
Infine la Brexit. La quale è ben più tangibile di uno spettro e sta già minando alla base quel multiculturale muro portante che, come le antiche rovine per i palazzi barocchi romani, ha fatto finora da base per l’architettura musicale e sociale della città.