Non esiste la poesia facile. Questo disse a Matera il 6 febbraio del ‘55 Franco Fortini rivolgendosi a una platea dove spiccavano alcune impreviste berrette tra il pubblico di austeri intellettuali e militanti politici: il convegno era organizzato dal Partito Socialista (Fortini era ancora un iscritto), voluto da un altro grande intellettuale, Raniero Panzieri, e al vertice da Pietro Nenni e Rodolfo Morandi. La frase che bruciava d’acchito ogni scorciatoia populista e demagogica, invitando a connettere la poesia alla riflessione e al discorso intellettuale, avrebbe voluto cancellare l’immagine già vulgata del poeta e uomo politico che quel giorno si commemorava, Rocco Scotellaro (1923-1953), mancato improvvisamente due anni prima a soli trent’anni come Catullo.

LA SUA PARABOLA era stata breve e folgorante, così univoca e leggendaria da riassumersi subito nello stereotipo del poeta contadino: nato a Tricarico, nella stessa Basilicata, di famiglia modesta senza essere indigente, Scotellaro compie studi regolari fino alla maturità liceale e si iscrive all’Università di Napoli; fra guerra e dopoguerra svolge tra i braccianti un intenso lavoro sindacale e politico, milita nel Psi e nel ‘46 incontra Carlo Levi, l’autore dell’appena pubblicato Cristo si è fermato a Eboli, che sempre riconoscerà maestro nonostante nei suoi anni estremi mantenga un rapporto ricco di scambi e anche di dissensi con il grande antropologo Ernesto De Martino; eletto due volte sindaco del suo paese (nel ’46 e nel ’48), avvia una serie di importanti opere pubbliche, su tutte la costruzione di un ospedale, ma nel ’50, a seguito di una autentica congiura politica, viene arrestato per concussione e, pur uscendone in tutto scagionato, è costretto a vivere l’umiliazione del carcere; generoso negli affetti (l’amore per Amelia Rosselli fu un tracciante meteoritico), gli ultimi mesi di vita li trascorre, grazie a Manlio Rossi Doria, lavorando all’Osservatorio Agrario di Portici intorno a un’inchiesta sulla condizione dei contadini meridionali.

Dopo di che, la sua opera a stampa è integralmente postuma: fra il ’54 e il ’55 escono le prose raccolte in Contadini del sud e L’uva puttanella, precedute dalle poesie di È fatto giorno (1940-1953) con la prefazione di Carlo Levi, cui seguiranno Margherite e rosolacci (’78) a cura del suo maggiore studioso, Franco Vitelli, che firmerà per gli Oscar Mondadori l’eccellente curatela di Tutte le opere (2017).

Nonostante simili apporti filologici, l’edizione di inediti, carteggi e una bibliografia critica ormai nutritissima, lo stereotipo primario del portavoce d’en bas, del poeta contadino o insomma dell’autore «facile» verso cui metteva in guardia Fortini stenta a venir meno: dunque è benvenuto, nell’esatto centenario della nascita, Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta (Carocci, pp. 165, euro 19), una monografia che, con una partecipe prefazione di Goffredo Fofi, esce a firma di Marco Gatto, uno dei nostri più raffinati studiosi e teorici della letteratura che ha al suo attivo fra non pochi altri titoli un lavoro complessivo su Fredric Jameson (riproposto da Futura nel 2022) e il raro Glenn Gould. Politica della musica (Rosenberg & Sellier 2014).

Proprio sullo stereotipo lavora Marco Gatto smarcando Scotellaro dall’ombra troppo lunga di Carlo Levi e perciò dall’idea, che nel Cristo è invece costitutiva, del mondo contadino come intatta e remota alterità, come universo favoloso e insieme deietto da cui Scotellaro, voce coreutica, uscirebbe alla maniera di un antico aedo. Al contrario Gatto parla di mediazione o meglio di «mediazione partecipativa» da parte di chi, niente affatto naive e anzi educato sui classici, utilizza semmai la tecnica verghiana della «regressione» (al senso comune, al tono discorsivo, all’acustica) al mondo di cui pure è tramite, ciò che lo studioso definisce «processo realistico di avvicinamento al mondo popolare».

SI TRATTA DI UNA PAROLA d’autore che in sé non ascende verso il sublime né discende verso il comico ma mette in rapporto dinamico, e talora in cortocircuito, l’alto e il basso dell’esperienza. Qui il Gramsci delle notazioni sul folclore nei Quaderni e il De Martino de Il mondo magico fanno aggio, nella valutazione di Gatto, sulla ipoteca di Levi nonostante Scotellaro mantenga un’idea differente da De Martino circa la nozione di «autore» all’interno della poesia popolare laddove l’antropologo tende, insieme con il maestro Croce, a retrocederla verso un sostanziale anonimato.

Mediazione e complessità strutturale testimoniano sia le prose sia le poesie del lascito di Scotellaro e qui l’analisi di Gatto risulta di particolare nitidezza (e novità, specie riguardo alla sperimentazione metrica delle poesie) quando ne sottolinea in entrambi i casi la struttura plurivoca e il carattere connotativo. Perché da un lato L’uva puttanella e soprattutto Contadini del Sud alternano le forme dell’autobiografia, del memoriale, del dossier o del romanzo vero e proprio, mentre dall’altro la voce che abita le partiture poetiche rifugge la monodia, scambia di continuo le parti fra un io e un noi, fra moto centrifugo e centripeto della pronuncia, ora aderendo a un parlante indeterminato ora invece legandosi a una ben riconoscibile autobiografia come nel caso della breve, bellissima, lirica «La luna piena»: «La luna piena riempie i nostri letti,/ camminano i muli a dolci ferri/ e i cani rosicano gli ossi./ Si sente l’asina nel sottoscala,/ i suoi brividi, il suo raschiare./ In un altro sottoscala/ dorme mia madre da sessant’anni».

FORTINI, IN PROPOSITO, aveva fatto non per caso riferimento al connubio di rivoluzione e decadentismo che ordisce la poesia di Sergej Esenin. Per parte sua, calcolandone il senso della vicenda complessiva, Gatto afferma che «l’opera umana e culturale di Scotellaro rappresenta il tentativo politico di un giovane intellettuale di mediare tra la sua esperienza concreta di scrittore, militante e di amministratore e quella di una realtà non riducibile a fin troppo semplificati parametri di sociologia rurale, tanto meno ai contorni sfumati della letteratura». Perché, appunto, la poesia facile non esiste e non può esistere.

Nell’ultimo capitolo della monografia è infine tracciata una esquisse di libri assimilabili a quelli di Scotellaro, libri in cui l’impegno civile non è solo suggerito dalla coscienza quanto, come voleva Pasolini, dalla «conoscenza di classe» cioè da un coinvolgimento integrale e fisico persino, in medias res, da parte di chi scrive: è il caso delle stupende Autobiografie della leggera (’61) di Danilo Montaldi o de L’immigrazione meridionale a Torino (’64) di Goffredo Fofi o di Africo (1979) di Corrado Stajano ma è il caso anche, da ultimo, di uno straordinario analista sociale, l’autore di Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud (2008), uno scrittore che per più di un tratto rammenta la passione e la luce intellettuale di Rocco, vale a dire l’indimenticabile Alessandro Leogrande (1977-2017), anche lui troppo presto mancato.