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Olivo Barbieri, il mondo in sospensione

Olivo Barbieri, il mondo in sospensione«Palazzo Barberini, Olivo Barbieri, La camera degli sposi Palazzo Ducale Mantova. Un racconto silenzioso» (ph Manuela De Leonardis)

Intervista La Camera Picta di Mantegna secondo il fotografo «anglosassone emiliano», a Palazzo Barberini

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 marzo 2021

Un percorso inusuale si snoda a Palazzo Barberini. Promossa dal Mic, dalla Direzione generale creatività contemporanea e dall’Iccd con le Gallerie nazionali di arte antica, la mostra Italia in-attesa. 12 racconti fotografici, curata da Margherita Guccione, Carlo Birrozzi e Flaminia Gennari Santori (fino al 13 giugno), vuole essere archivio visivo del Belpaese durante la pandemia. Tra i fotografi italiani selezionati – Biasiucci, Camporesi, Cresci, De Pietri, Ferretti, Guidi, Jemolo, Jodice, Martin, Niedermayr e Tatge – Olivo Barbieri (Carpi 1954) ha introiettato l’idea di sospensione riprendendo dei particolari della Camera Picta o Camera degli Sposi affrescata da Andrea Mantegna tra il 1465 e il 1474.

Esposta nella Sala delle Colonne (vis-à-vis con Guido Guidi), La camera degli sposi Palazzo Ducale Mantova. Un racconto silenzioso (2020) è una riflessione sui meccanismi della percezione e della rappresentazione che intercetta sia la sensazione di «un tempo senza alcun desiderio» di cui parla il poeta giapponese Masaoka Shiki, che una possibile proiezione nel futuro che rimanda al suo film «site specific» Shanghai 04 (2004).

Olivo Barbieri, Camera Picta#2, Mantova 2020


La cultura orientale è stata uno strumento per la sua personale lettura del lockdown?

Sono sempre stato appassionato di haiku e durante la pandemia ho letto quelli di Masaoka Shiki. Mi ha colpito molto la riflessione sulla costrizione in un interno e quando mi è stato proposto questo progetto ho pensato alla sala del Mantegna: una macchina della visione in cui dall’interno si vede l’esterno. Ho realizzato questi tre «frammenti» pensando alla loro modernità. Nel primo c’è una mano che indica – viene da una cancellazione – ed è vicina al cavallo che fino ad un secolo fa era il mezzo di trasporto della contemporaneità. Il secondo, particolarmente commovente, presenta il meccanismo dell’intreccio di relazioni attraverso le mani, uno dei leitmotiv di questa nostra epoca in cui non ci si può abbracciare né toccare. Nel terzo, intorno all’oculo, trovo magico quel profilo accennato all’interno della nuvola che, in realtà, è così in alto che non si riesce a vedere se non nella fotografia. Tra le figure c’è anche una donna di colore. Un altro dei grandi temi della nostra contemporaneità è proprio il ruolo che occupa la donna di colore soprattutto nel mondo della cultura. Si trattava certamente di una figura subalterna, ma Mantegna l’ha sbalzata in primo piano, occupa lo stesso spazio d’importanza delle altre.

Nell’uso del colore che, fin dagli anni ’70, caratterizza la sua fotografia sono stati particolarmente importanti Lee Friedlander, William Egglestone e Luigi Ghirri…
Ho amato moltissimo il lavoro di Friedlander: è attraversato da un’assoluta libertà. Fotografava sua moglie come un palo della luce, un paracarro e un grande paesaggio. Invece, Egglestone mi interessava perché era provinciale come me. Vive nel Tennessee, uno stato decentrato anche se importante degli Stati Uniti, fotografando sempre intorno a casa. Trovo affascinante che, comunque, le sue immagini siano universali e poi c’è il suo spregiudicato, incondizionato, uso forbito del colore. Quanto a Ghirri ha anche la «colpa» di avermi fatto fare, nel ’78, la mia prima personale alla Galleria civica di Modena. Presentavo Flippers che è un progetto non troppo diverso dalla Camera Picta. Lì fotografavo dei rottami dall’alto, mentre qui al contrario. Con Luigi siamo stato molto amici per quattro, cinque anni. In occasione della sua prima personale in America (nel 1980 alla Light Gallery di New York, ndr) quando stampava le fotografie ci ritrovavamo tutte le sere e ne discutevamo. Però con lui non ho imparato a fotografare. Gli chiedevo spesso cosa volesse dire con le sue immagini e lui mi rispondeva «cerco la verità». Lo diceva anche Stieglitz e qualsiasi scrittore o filosofo. La sua è stata una lezione di vita. Ho capito come costruire una mostra, un libro fotografico e anche a non uscire in miseria dalla fotografia! C’è un limite entro il quale gestire la passione.

Erano anche anni in cui non c’era piena consapevolezza del valore artistico della fotografia…
Spesso ne discutevo anche con Guido Guidi che, con Ghirri, era la persona che frequentavo di più. Li ammiravo: erano due forme di resistenza. Si parlava di Wittgenstein e dei massimi sistemi, c’era Benjamin. Ora siamo pieni d’immagini e non sappiamo dove metterle, ma qual è il vero motivo per cui ci interessano così tanto? Non c’è ancora uno studio che rifletta su questo tema. Da un punto di vista filosofico, le immagini sono ferme da cento anni.

Lei si definisce «anglosassone emiliano», in che senso?
Nella pianura padana – il posto più triste d’Italia, dove non si vede un tubo, tutto è piatto e di una noia micidiale – ci sono molti più fotografi che in città fantastiche come Roma o Firenze. C’è anche tanto cinema, Cavani a Carpi, Antonioni a Ferrara, Zavattini a Luzzara. Il rigore viene dall’educazione che ci è stata data e per usare uno strumento meccanico come la fotografia se non si ha una gabbia metallica ben precisa diventa tutto un gioco un po’ sbandato. Un altro fattore importante è l’idea democratica della cultura. Il cinema e la fotografia sono, appunto, linguaggi universali, comprensibili da tutti. Ricordo che quando ero ragazzetto dicevano che dovevamo imparare il dialetto – non le lingue straniere – perché era importante per entrare nella cultura. C’era il pensiero di «cattocomunismo ecumenico» della comunicazione dall’alto e dal basso – che probabilmente si è diffusa anche grazie a Eco – ed è stata fondamentale nel farci prendere in considerazione, dal paracarro al Mantegna senza esclusioni.

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