Al 565 di Fifth Avenue il mare non s’intuisce nemmeno, dietro ai profili aguzzi dei grattacieli. Sotto l’ombra del Rockfeller Center e a un passo dal MoMA gli unici flutti che si abbattono su quell’isolato elegante sono le folle in transito da Grand Central, ogni sera e ogni mattina, a invadere l’isola esigua di Manhattan. E del resto la città nel suo cuore più intimo, lontano dai suburbs del Queens e di Brooklyn, quasi non ha spiagge.

Solo di recente il waterfront, da un lato e dall’altro della striscia di terreno che contiene la più frenetica vita newyorkese, si è visto sottratto alle infrastrutture ingombranti di un centro portuale, ai depositi e agli attracchi che, nel corso dei decenni, avevano subito un degrado progressivo, aperto a reimpieghi e utilizzi clandestini. Nell’immediato dopoguerra, al contrario, la vita balneare dei residenti, più o meno stabili, si spostava su direttrici lontane dal centro, rigidamente tracciate da dinamiche di classe: si può immaginare dunque il senso di straniamento che dovette accogliere i primi visitatori, il 24 maggio 1954, quando a quell’indirizzo si aprirono le porte dello showroom Olivetti, tappa estrema dell’avventura commerciale intrapresa dalla casa di Ivrea e momento imprescindibile d’una più ampia strategia d’affermazione sul competitivo mercato statunitense.

Fra pietre di Candoglia, trasparenze cristalline, enormi argani dorati, lo sciabordare del marmo verde di Challant fino a erodere i marciapiedi, stalagmiti addomesticate cresciute dal pavimento, l’ambiente rimandava infatti un’immagine marina, sospesa fra Verne e i sogni acquatici di De Chirico, fra l’intrepido coraggio dei palombari e lo spirito incosciente di Colombo: a galleggiare su tutto la linea funzionale della Lettera 22, tesoro esotico abbandonato con nonchalance alla prova degli avventori. Confermava quest’atmosfera, orchestrata con poesia dallo studio BBPR, la grande parete scultorea concepita dall’expertise di Costantino Nivola, scultore sardo istallatosi nel Greenwich Village e versato nell’arte di fissare in eterno fragili rilievi di sabbia. Un’idea economica, sospesa liricamente fra l’effimero e l’imperituro, che aveva sedotto perfino Le Corbusier e che – sotto il nome di sand casting – stava attirando riflessioni complesse, favorevoli a un’applicazione estesa in chiave decorativa e in un’ottica architettonica.

Costantino Nivola assistito dalla figlia Claire per l’installazione al Science Building della Harvard University, Cambridge Usa, 1973

Basta riandare all’incipit celebre del commento, apparso sul magazine «Industrial Design» nei mesi appena successivi al taglio del nastro, per darsi conto dello smarrimento che dovette colpire i visitatori, impreparati allo scintillio di una tanto profonda grotta delle meraviglie: «Pardon me, mister, but maybe / you can tell me / What’s going on here? / Are they selling something?».

A fronte di uno sfoggio così audace d’invenzioni, destinate a urtare con le norme dello stato di New York in fatto di sicurezza, lo showroom si è imposto al dibattito accademico come capitolo essenziale per la storia del design italiano e come episodio rilevante del suo successo internazionale a partire dagli anni cinquanta. Discusso sin dall’inaugurazione in un clima d’accoglienza strabiliata, contraddetta soltanto dai rilievi di poche (per quanto autorevoli) voci, l’avamposto del brand piemontese ha dunque suscitato curiosità crescenti, fino ai recenti contributi di Romy Golan o Jim Carter e all’esposizione, tenutasi al Museo Nivola di Orani nella scorsa primavera-estate: è tuttavia proprio il volume che riassume i risultati scientifici di quell’evento – messo insieme dalle curatrici della mostra, Giuliana Altea e Antonella Camarda – a far il punto su un simile caposaldo, reindirizzandone in qualche misura l’esame verso un puntuale focus d’indagine, nel rispetto di aggiornate prospettive metodologiche: Lo showroom Olivetti a New York Costantino Nivola e la cultura italiana negli Stati Uniti (Edizioni di Comunità, pp. 208 + 16 pagine con foto a colori, euro 20,00).

Se, almeno sin qui, l’analisi critica del negozio (e della sua vicenda costruttiva) ha riflettuto sulla fase progettuale a firma di Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgioioso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers, il volume in questione suggerisce come parte non meno rilevante della concezione d’insieme vada considerato proprio il fregio «primitivista» di Nivola, il quale più dei BBPR poté giocare per l’impresa un ruolo interlocutorio col mondo U.S.A., forte di un network ben consolidato e di una posizione privilegiata sulla scena della Grande Mela.

Non mancano ovviamente saggi dedicati alla concezione architettonica dello spazio. Quello di Marta Avena, ad esempio, è puntuale nel riposizionarne la fisionomia nell’estesa storia delle coeve proposte italiane in fatto d’arredi e di allestimenti, partendo da casa Rollier o Casa Brion, per arrivare al Castello Sforzesco e a Palazzo Bianco di Genova. Non meno interessante si dimostra il pezzo di Camarda, che nel chiarire l’impatto del negozio sulla catena di punti vendita promossa dall’Olivetti fra la Costa Est e la Costa Ovest, a San Francisco come a Chicago, mette in luce le strategie di marketing sostenute nell’accogliere le proposte dello studio milanese, grazie a Leo Lionni, referente dell’Ufficio pubblicità, e al piano di sviluppo dello stesso Dino Olivetti.

Nondimeno, la parte rivestita dallo scultore nella messa a punto dello showroom si offre come un aspetto centrale per l’intera iniziativa, proprio alla luce di una disamina più ampia che se da un lato intende riportare al centro il discorso postbellico sull’ornato scultoreo e il linguaggio modernista (lo sguardo rivolto a eventi come le rassegne The Relations of Painting and Sculpture to Architecture e Modern Relief, entrambe tenutesi al MoMA nel 1951), dall’altro è convincente nell’indicare in Nivola l’attore di una dinamica di mediazione, in tutto intonata al transnational turn impostosi agli studi sull’arte americana del XX secolo. Lo scultore, del resto, era giunto a New York sin dal 1938 e si era sapientemente inserito nella composita comunità intellettuale cittadina, stringendo legami con autoctoni ed espatriati, da Pollock a Marcel Breuer, da Léger a De Kooning.

In un’ottica siffatta si spiega meglio il sottile gioco di forme modulato grazie al pannello, lungo venti metri, le quali, se da un lato rimandano ad «arcaismi» di marca surrealista (non distanti dagli alfabeti favoriti da altri artisti nomadi sul tipo del cubano Wifredo Lam), dall’altro rinviano invece a un lessico archetipico, innervato di memorie primordiali e da precise reminiscenze ‘native’.

D’altronde Nivola era tornato per la prima in Sardegna nel 1947, entrando in contatto con testimonianze di scavo e col patrimonio archeologico dell’isola; non meno significativamente, appena due anni dopo, avrebbe girato l’Italia una mostra didattica sui bronzi nuragici, accolta a Roma dalla galleria di Valle Giulia allora diretta da Palma Bucarelli, per esemplificare (nelle parole stesse degli organizzatori) «l’influenza che queste forme d’arte … hanno avuto su movimenti dell’arte contemporanea».

In una tanto potente orchestrazione di istanze cosmopolite e madeleines originarie, la proposta dell’artista sostituiva un’italianità millenaria alle citazioni classiche fino a quel momento accolte dal marketing Olivetti (statue antiche erano apparse nel negozio milanese durante gli anni trenta e sarebbero tornate a San Francisco su proposta di Giorgio Cavaglieri), assecondando in qualche misura un immaginario «poverista» già rilanciato dalle testate americane, attraverso reportages come quelli di Irving Penn per «Vogue». Allo stesso tempo, però, la parete decorata rispondeva a un complesso immaginario fantastico che – nel rispetto di formulazioni teoriche pregresse (in primis la lezione di Persino) e non senza ricadute di carattere politico – veniva allora considerata come una via possibile all’esportazione del made in Italy, complici attori quali la Galleria dell’Obelisco e personalità di spicco del mondo peninsulare, da Fabrizio Clerici a Giò Ponti. Quest’ultimo, non a caso, fu fra i primi entusiasti estimatori del negozio sulla Quinta: «ha il merito di farci godere una sorpresa, è senza accademia e (…) non è nemmeno antiaccademico. (…) è una invenzione, è pieno di inedito, e di valori poetici (…) ci porta immediatamente in un clima di immaginazione e libertà.