Per la rarefazione dei contenuti e per i materiali stessi impiegati nella realizzazione delle opere, la pregevole personale di Wolfgang Laib – curata da Marco Franciolli e Francesca Bernasconi e ospitata al MASI di Lugano fino al 18 marzo – mette candidamente in discussione l’odierna selvaggia prevalenza del vedere, dovuta al sovrabbondante flusso di immagini. È infatti l’odorato il primo senso che colpisce il visitatore varcata la porta della sala espositiva nei piani interrati del museo ticinese: prima ancora che prenda coscienza di ciò che sta guardando, è l’odore della chimica (naturale) degli elementi a parlargli, a dare informazioni, a fornire suggestioni capaci di condurlo inaspettatamente in spazi «altri» dal museo.
Se odori spigolosi, essenze oleose e sentori di legno si mescolano nelle nostre narici già sulla soglia, è un profumo conosciuto a raggiungerci quando ci pieghiamo sopra una lastra bianca di marmo, un parallelepipedo sottile dalla superficie curiosamente lucente. L’odore è quello del latte fresco, che quotidianamente viene versato su Milkstone (1993-’94), la cui faccia superiore Laib ha incavato per raccogliere, appunto, un velo di latte. Il liquido, steso fino ai bordi, è sia elemento vivo, in rapida evoluzione e destinato a cambiare il proprio stato, sia componente fisica leggera e labile in contrasto con la fredda consistenza del marmo. Nel contempo Milkstone, che l’artista ha riproposto sin dagli anni settanta semplicemente mutandone le dimensioni, trasforma la scultura in un rito giornaliero di cura, fecondazione e ciclica rigenerazione. Come scrive in catalogo Guido Comis, «l’atto di versare il latte può essere interpretato come una liturgia battesimale che ha come fine la restituzione della lastra al suo volume originario; il latte ridona cioè ad essa la perfezione di cui è stata privata con la violenza dallo scalpello».
Alla vasca, candida, bassa ed orizzontale, si contrappone la forma ovale di Brahmanda (2014-’15), in granito nero frizionato di olio, la cui ampia volumetria richiama alternativamente le forme del sasso e dell’uovo, e che ricorda l’opera di Joseph Beuys, di cui Laib – per l’essenzialità e la sensibilità nei confronti della natura – è in parte erede. La ricerca sulle forme primarie è inoltre sottolineata dalla parete frontale, su cui sono collocate delle fotografie in bianco e nero dove l’artista indaga alcune delle strutture ricorsive nelle antiche strutture architettoniche dell’India o del Vicino Oriente (triangoli, quadrati), che sono poi essenzialmente le matrici visive e concettuali da cui scaturiscono i suoi disegni, con la loro reiterazione di minimi elementi formali colorati.
L’impiego di forme primigenie sintetiche è centrale nella poetica di Laib, formatosi anche come medico e nato nel 1950 in Germania in una famiglia con cui sin da ragazzo ha viaggiato in Oriente. Fin dagli esordi negli anni settanta l’artista ha infatti impiegato gli archetipi architettonici in chiave simbolica (la scala, il tempio, la cavità, il cubo, il cerchio, ecc.), risemantizzandoli con l’impiego di materiale di provenienza naturale. L’olio, il latte, la cera o il riso sono dei trasduttori in campo artistico degli ideali del nutrimento e della meraviglia propri del mondo della natura, di cui riportano alla massima intensità – in forma visiva, olfattiva, simbolica – il senso panico. E questo non è solo frutto della fascinazione per l’Oriente: «nelle idee di Laib sulla natura e sul posto che l’uomo vi occupa – scrive in catalogo Simone Menegoib – si avverte l’eco, per quanto remota, della sensibilità artistica, poetica e filosofica del primo Romanticismo tedesco».
Nel prosieguo della mostra è poi una polvere di colore giallo intenso ad attirare l’attenzione: disposta su di una mensola bianca, in cinque montagnole a cono di pochi centimetri, cui segue un quadrato, enorme, in tinta più tenue, collocato sul pavimento. Sono Polline di pino (2012-’15) e The Five Mountains Not to Climb (2017) , opere realizzate accumulando rispettivamente del polline di nocciolo e di pino, che trasmettono un senso di purezza e sacralità nella loro impalpabilità e ricchezza germinale. «A differenza della maggior parte degli artisti di oggi – spiega Laib – non sono spaventato dalla bellezza. Il polline, il latte, la cera, hanno una bellezza incredibile che va oltre l’immaginazione. La bellezza ti sta di fronte e devi essere pronto. Non potrei crearla da me, ma posso prendervi parte». L’artista tedesco intende il proprio ruolo non tanto come quello di un creatore di ciò che prima non esisteva, ma come raccoglitore e organizzatore che raduna e combina elementi che gli pre-esistono.
Esempio significativo, l’ultima sezione della mostra, in cui spiccano Senza titolo (2003) in legno e lacca birmana scura e la grandiosa Es gibt keinen Anfang und kein Ende (1999), una scultura costituita da una struttura simmetrica in legno di oltre sei metri d’altezza ricoperta di cera d’api: emana un profumo intenso che racconta di fiori e del lavoro degli insetti. L’opera, che ricorda nelle fattezze le ziggurat della Mesopotamia, è insieme emblema del tempio e della scala verso l’alto (verso la saggezza?) che accomuna religioni passate e culture presenti. Franciolli: «per Laib la ricerca costante della riduzione all’essenziale e della semplicità conduce alla comprensione, non attraverso la conoscenza discorsiva bensì tramite un approccio contemplativo». E davvero, a un passo dall’opera, viene voglia di chiudere gli occhi.