Ogni giorno 25. E’ questo il numero di oranghi che muore a causa dell’espansione delle mono-coltivazioni di palma da olio. La scimmia antropomorfa del sud est asiatico le cui popolazioni sono in drammatico calo (secondo il WWF si sono dimezzate negli ultimi sessant’anni), è da tempo il triste simbolo delle conseguenze di un modello di produzione estremamente aggressivo che si accompagna a deforestazione, perdita di biodiversità, sottrazione di riserve idriche, esproprio di terre locali, utilizzo di lavoro minorile.

Il tutto per soddisfare la domanda mondiale di un grasso che per il suo basso costo e le sue caratteristiche organolettiche era andato a sostituire in moltissimi dolci, ma anche prodotti per l’infanzia, il burro, più costoso, e le margarine, grassi vegetali idrogenati di cui era stata riconosciuta la pericolosità per la salute. Risultò poi che anche l’olio di palma , in quanto sostanza ad alta concentrazione di grassi saturi al pari del burro e a causa della presenza di sostanze cancerogene, non era molto più sano. Questa evidenza, unita alla messa sotto accusa da parte di Greenpeace per gli effetti sull’ambiente e di Amnesty International per lo sfruttamento dei bambini nelle piantagioni, ha portato alla sua demonizzazione internazionale. Il mercato si è presto adeguato ed è già da qualche anno ormai che siamo sommersi di prodotti con l’indicazione «senza olio di palma». Ma allora perché vengono ancora abbattuti migliaia di ettari di foresta primaria?
In Indonesia – con la Malesia produttrice di una quota fra l’85% e il 90% mondiale – si sacrificano 800mila ettari all’anno del lussureggiante ecosistema tropicale.
Il problema è che l’olio di palma è un economico ingrediente dei cosiddetti «verdi» e sostenibili biocarburanti: anche se negli ultimi anni il suo uso per alimenti, cosmetici e detergenti è diminuito, quello usato per biodisel è quadruplicato.

Quindi si continua a radere al suolo foresta pluviale a un ritmo frenetico per sostenere un mercato che ha l’Europa fra i suoi clienti più esigenti. Lanciata sul mercato europeo da una direttiva del 2009 che mirava a ridurre le emissioni inquinanti dei combustibili fossili, la quota di olio di palma importata dal sud-est asiatico e destinata ai trasporti è aumentata drasticamente, passando da 825mila tonnellate nel 2008 a 3,9 milioni di tonnellate nel 2017. Lo scorso anno, il 51% dell’olio di palma utilizzato complessivamente in Europa è finito nei serbatoi di auto e camion, un aumento del 13% rispetto all’anno precedente. Il paradosso è che a conti fatti, se si tiene conto dell’intero ciclo di produzione dei biocarburanti, oltre a cancellare le foreste con il loro prezioso patrimonio di biodiversità e risorse, essi hanno sul clima un impatto peggiore rispetto ai combustibili fossili che sostituiscono: gli incendi utilizzati per deforestare e il cambiamento della destinazione del suolo determinano una maggiore immissione di anidride carbonica in atmosfera, oltre a impoverire le comunità locali che dipendono dall’ecosistema forestale e determinare inquinamento dell’aria e dell’acqua.

Uno studio del 2015 commissionato dalla stessa Unione Europea lo ha rilevato, e lo ha confermato il rapporto 2017 della Rain Forest Foundation Norway, organizzazione ambientalista norvegese che da anni denuncia gli impatti della deforestazione nei tropici. E deve essere anche grazie a questo lavoro di ricerca e sensibilizzazione che la Norvegia sarà il primo paese non solo in Europa ma al mondo a mettere al bando i biocarburanti a base di olio di palma. Un voto storico del parlamento di un paese che ha capito l’urgenza di una seria riforma dell’industria mondiale e che rappresenta un esempio per tutti gli altri paesi, in primis quelli più vicini; in realtà il Parlamento Europeo ha già approvato lo scorso giugno una nuova legge sull’energia verde analoga a quella norvegese: la direttiva 2018/844 che oltre ad imporre alle compagnie petrolifere l’obbligo di dichiarare la presenza di olio di palma e limitare i sussidi ai biocarburanti prodotti dalle colture alimentari, richiede di eliminare le colture ad alto rischio di deforestazione. Lo fa però con troppa calma, concedendo tempo fino al 2030, quando l’allarme sta già suonando da un pezzo. La parola fine spetta alla Commissione Europea, che deve emanare un regolamento attuativo entro il primo trimestre 2019.

Per questo motivo una coalizione di ONG ambientaliste di diversi paesi europei ha lanciato la campagna #NotInMyThank – non nel mio serbatoio – per sollecitare la Commissione Europea a rendere effettiva l’eliminazione dell’olio di palma nel diesel con un atto di delega entro febbraio 2019.

Comunque ogni governo, come ha fatto la Norvegia, può decidere nel 2021 di abbandonare l’olio di palma ed altri biocarburanti alimentari. In Italia la percentuale di olio di palma utilizzato nei biodisel raggiunge il 95%, il dato più alto della UE. Inoltre il nostro paese è il secondo maggior produttore di biodisel da olio di palma di tutta Europa , soprattutto grazie alla raffineria ENI di Porto Marghera, una delle più grandi bioraffinerie di olio di palma in Italia. Quindi mentre secondo la Coldiretti le importazioni ad uso alimentare hanno invertito la rotta, grazie alle campagne di informazione che hanno sensibilizzato i consumatori italiani, quello per i biocombustibili aumenta.