Olga Chernykh: «Ho cercato una storia dell’Ucraina oltre la guerra»
Olga Chernykh
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Olga Chernykh: «Ho cercato una storia dell’Ucraina oltre la guerra»

Intervista Incontro con la regista Olga Chernykh, in «A Picture to Remember» costruisce una memoria intima e collettiva
Pubblicato 8 mesi faEdizione del 7 febbraio 2024

Quando è iniziata la guerra in Ucraina Olga Chernykh aveva già pensato e scritto il suo film. Ciò che stava accadendo ha cambiato naturalmente le cose anche se lei non voleva fare un film sulla guerra, che in A Picture to Remember c’è, attraversa la narrazione, i vissuti spostando però lo sguardo dall’attualità alla storia. Un’esigenza questa che ritroviamo in altri registi ucraini Millennials (è nata nel 1990) come Philip Sotnychenko, che lei conosce bene, regista di La Palisiada – un film che dall’anteprima lo scorso anno al Festival di Rotterdam ha continuato a viaggiare (e a avere premi) approdando in Italia grazie all’ultimo festival di Torino.

Ma cosa racconta A Picture to Remember? La storia di una famiglia, che è quella della regista, a partire dalla linea femminile, lei stessa, la madre, la nonna che si intreccia a quella dell’Ucraina, nella regione che di questa guerra è stata il «pretesto» – e al centro da molti anni di uno scontro costante e poco visibile – cioè il Donbas dove Olga è nata (a Donec’k), in quelle città che ne sono divenute l’immagine simbolo come Mariupol, dove lei da ragazzina andava in gita con l’amichetta del cuore saltando la scuola. Memorie di infanzia, frammenti di Unione sovietica, cent’anni di storia ucraina, la distruzione della seconda guerra mondiale, la violenza di oggi. La brutalità dei maschi, i cambi di rotta improvvisi, le migrazioni. Pure i suoi genitori lasciano il Donbas per trasferirsi a Kyiv, lì rimane soltanto la nonna, ostinata nella sua casa. Da lontano le tre donne parlano in video chiamata nei giorni dell’attacco russo, c’è ansia, paura, nemmeno il loro gioco di sempre – un po’ di champagne – funziona più. Si sente l’eco delle bombe, in strada altre immagini dalle telecamere di sorveglianza mostrano le persone che cercano rifugio, fuggono, muoiono; la guerra entra in tv ogni secondo, gli archivi alla prima persona si mescolano fra loro, e nel flusso del tempo compongono una storia collettiva. Nel frattempo Olga ha lasciato l’Ucraina, ora sta in Bulgaria – «In un piccolo paese tra le montagne, un posto molto isolato» ci dice. L’incontro avviene al festival di Trieste.

«A Picture to Remember» si confronta col conflitto in corso ma non è un soltanto film sulla guerra. Che idea avevi?

In realtà ho iniziato a lavorare a questo progetto molto prima che la Russia invadesse il nostro Paese, già nel 2012. Quando la guerra è cominciata era già scritto e montato, ovviamente ho dovuto cambiare tutto. Però non volevo mostrare direttamente la guerra quanto i segni che lascia su di noi, la sua influenza sul nostro processo di identificazione. In un modo o nell’altro tutti dovremo affrontare una perdita, e per questo avere qualcosa a cui aggrapparsi è fondamentale per il futuro. Così ho riscritto la storia cercando nelle memorie degli archivi ciò che era alle spalle per illuminare quello che avviene oggi; la memoria assume un ruolo ancora più importante in questo processo, e gli archivi ne diventano in qualche modo portatori. Ho provato a ricreare la realtà in suggestioni di luoghi e riferimenti immaginari sospesi tra memoria e sogni, anche bruttissimi, guardando infinite volte i materiali per trovare le immagini necessarie. Avevo fatto molte ricerche quindi avevo in mente un database preciso di quello che potevo utilizzare, pur modificandolo di continuo fino a restituire il sentimento giusto. Con la guerra e dopo che sono andata via era cambiato tutto, avevo bisogno di un diverso approccio alle emozioni che avvertivo intorno a me, che doveva avere una sua cifra formale nel film e nel modo di raccontare le mie storie – anche se appunto non volevo mettere la guerra al centro.

Alla fine del film dici che sei molto triste perché sei partita lasciando le persone che ami. Questo stato d’animo di un dislocamento più o meno forzato, è una delle possibili linee che lega passato e presente.

In un certo senso appartiene alla storia della mia famiglia, e non solo. Ci sono state molte migrazioni nelle diverse generazioni famigliari, mia nonna è stata evacuata durante la seconda guerra mondiale, la migrazione forzata è profondamente parte della nostra esperienza. Il mio obiettivo era proprio connettere questa parte della storia famigliare, della vita di mia madre a quanto sta accadendo oggi. Le città, il paesaggio, i ricordi, la violenza: tutto questo è anche parte del mio vissuto purtroppo.

Dopo due anni di guerra e moltissime immagini è complesso trovare un equilibrio, qualcosa che si allontani dall’«abitudine» della cronaca. È anche per questo che hai cercato altre direzioni?

Ne ero consapevole, certo, ed è stata una delle ragioni che mi hanno convinta a minimizzare la presenza di footage della guerra. Come dicevo non volevo che divenisse il solo tema del mio film, così ho costruito dei contrasti coi quali aprire nuovi possibili punti di vista. L’archivio offre soluzioni infinite, non ho girato nulla, tutto è archivio che arriva da istituzioni, da telecamere di sorveglianza, da registi che hanno filmato in questi due anni in Ucraina. E poi c’è l’archivio famigliare, realizzato da mio padre e soprattutto da mio nonno, del quale non avevo troppi ricordi. Non era vastissimo ma guardarlo mi ha fatto conoscere meglio le loro vite.

Cosa pensi che potrà accadere ora in Ucraina?

Aspetto che arrivi il buco nero, secondo la teoria che ne prende il nome. È questa la mia speranza anche se realisticamente so che la guerra durerà ancora lungo. Per non essere troppo pessimista spero che l’occidente continuerà a sostenerci, vivendo nel Donbas sappiamo bene come va, prima prendono un pezzetto poi si espandono fino al grande passo, è la lezione che ci insegnano le esperienze di altri paesi – penso alla Georgia, alla Moldavia. Ecco, vorrei che questo «grande passo» non gli fosse permesso.

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