Ogni parola detta come fosse l’ultima
Letteratura russa Marina Cvetaeva aveva descritto la lirica come una linea tratteggiata, fatta di lacune bianche da mozzare il fiato, dove manca l’aria e si mima la morte: Paola Ferretti traduce «Sette poemi», per Einaudi
Letteratura russa Marina Cvetaeva aveva descritto la lirica come una linea tratteggiata, fatta di lacune bianche da mozzare il fiato, dove manca l’aria e si mima la morte: Paola Ferretti traduce «Sette poemi», per Einaudi
«Voi siete un fenomeno della natura», scrive Marina Cvetaeva a Pasternak nel febbraio del 1923, dopo un’insonne lettura di Temi e variazioni . E di rimando, Pasternak legge ancora in dattiloscritto il Poema della Fine quale «abisso di lirica abbagliante, di michelangiolesca vastità». Nella reciproca esaltazione, questo riconoscimento a distanza ha lasciato pagine di insuperata esegesi: avviene per lettera, il mezzo che insieme al sogno instaura – «il tipo di rapporto che preferisco, ultraterreno» dichiara perentoria Cvetaeva. Nell’epistolario, infatti, – da Serena Vitale generosamente curato e chiosato negli anni Ottanta – è possibile rintracciare, come nei celebri Taccuini, parole, figure, emozioni germinali che delle liriche, del teatro, dei poemi saranno quasi un «risvolto», in un’incessante osmosi che convince dell’omogeneità sostanziale di questa inesauribile poeta.
Dei generi, Marina Cvetaeva ha fatto quasi un’indicazione di lettura musicale, per impostare la voce – «il più tenero dolce» – seguendo ora il ritmo percussivo, martellante dei suoi coriambi, ora quello di respiro più ampio nei logaedi. Non stupisce l’utilizzo dei tempi musicali per una poesia da lei stessa definita «partitura», che esige dal lettore se non la competenza musicale, almeno un orecchio naturale, come lo è il moto del respiro. Né sorprende il «wagnerismo» di cui le scrive Pasternak, commentando il poema L’Accalappiatopi, mentre Šostakovich ne musicherà sei liriche in una suite per contralto e pianoforte, op. 143, interpretate dalla coloritura grave di Irina Bogachëva. Come Pasternak figlia di una pianista di talento e come lui in un primo tempo avviata all’assiduo studio del pianoforte, Cvetaeva scriverà di essere nata dentro la musica – «in die Musik hinein», aggiungendo: «dopo una madre così non mi restava che diventare poeta».
Una metamorfosi dai 4 elementi
Nel volgere di un decennio, tra il 1917 e il 1927, accanto alle raccolte liriche nascono opere teatrali, poemi, prosa saggistica, memorialistica. Il fervore di quegli anni può paragonarsi, per slancio e esiti creativi, al celebrato «autunno di Boldino» per Puškin nel 1830, ma qui non c’è un poeta assediato dal chòlera morbus che infuria a Mosca, bensì da guerra civile, miseria, fame, lutti, un folle isolamento. «Tracciare una storia di Marina per Poemi», esordisce Paola Ferretti che ora cura per la «bianca» di Einaudi Sette Poemi (pp. 254, euro 16,00), indicando subito una precisa intenzione, per la tipologia della scelta e per una particolare cabala di Cvetaeva, che nel sette individua il numero caro al folklore russo e ai suoi proverbi quanto alla mistica, secondo una sua propria ars combinatoria il cui vertice coincide nel Poema dell’Aria con i sette cieli o «aure» che presiedono alla progressiva spoliazione delle umane soglie sensoriali. Una scelta corrispondente all’intuizione di Pasternak – destinatario dei poemi Tentativo di Stanza e Dal Mare, quest’ultimo nella sua prima versione italiana – quando scrive a Cvetaeva che i cicli delle sue liriche tendono «al poema», ma si realizzeranno solo, con le parole della curatrice, «laddove il disegno complessivo giunga alla perfetta coerenza di forma e temi».
La stessa Cvetaeva aveva descritto la lirica come una linea tratteggiata che da vicino si riveli fatta di soli segmenti e di vuoti, lacune bianche da mozzare il fiato, dove manca l’aria e si mima la morte. Ogni parola come fosse l’ultima pronunciata. La sua è infatti una scrittura di congedi e addii, articolata con voce rotta, poiché – «tutti coloro che si separano parlano come ebbri e amano la solennità», ammonisce Hölderlin, in epigrafe al Poema della Montagna.
Scelta dunque intenzionale e calibrata, questa dei Sette Poemi, rivelatrice di una studiata partitura dove si intuiscono risonanze e rispecchiamenti che «vibrano degli stessi elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione». A due a due i Poemi possono essere letti via via come dilogia della passione vissuta, Poema della Montagna e Poema della Fine, – esaltazione della Montagna, deificata anche nella particolare resa allegorica della maiuscola – «volto maschile» opposto al liquido «dolore femminile» del secondo: «Lacrime./Gramigna asprigna – al gusto»; comunicazione onirica invece nel Tentativo di Stanza e Dal Mare, necessario post-scriptum alla vita reale per una poeta che afferma: «nella vita sono smisuratamente selvaggia Io non sono fatta per la vita. In me tutto è incendio».
Chiude la simmetria il dittico dei Poemi dell’etere: Per l’Anno Nuovo e Poema dell’Aria, dedicati a Rilke, «Orfeo germanico» e «topografia dell’anima», dopo la sua morte nel 1927. In questo ultimo Oratorio, la ricerca linguistica della traduzione si affina ancora, sino a note dantesche che ne seguono l’esoterico percorso, volto a disfarsi nelle «sonorità strazianti» del puro suono, con una ispirazione che rinvia a Skrjabin.
Sebbene nati da uno slancio di passione, i Poemi si presentano come una particolare metamorfosi e sublimazione della materia, attraverso gli elementi indagati dalla rêverie di Bachelard – terra, acqua, fuoco, aria. Un inoltrarsi che per Cvetaeva esige l’abiura della geometria euclidea, altrettanto negata da Brodskij a fine secolo, nel tentativo di annullare la costrizione dello spazio e insieme di esaltare le proprietà di un Tempo circolare, che le permette di convocare ombre del passato e creature del presente, figure del mito e della storia.
Rivolta e incendio
Nel settimo Poema, terzultimo in ordine di composizione, il Poema della Scala (per la prima volta in traduzione integrale) vibra la nota alta dello sdegno, l’invettiva contro il mondo delle cose borghesi e del possesso, ritmata da un sincopato quasi jazzistico, modulata lungo le sette note della scala musicale, con una resa di altrettante sonorità virtuose e ironiche, partecipi della vita miserrima in un caseggiato urbano, scala «di servizio» a chiocciola, che inverte il movimento ascensionale del Poema dell’Aria per ispezionare l’Ade del suburbio.
Reificazione e ribellione, rivolta e incendio, fino alla vittoria finale di Efesto in un falò purificatore. Sette Poemi che nella loro solida struttura di reciprocità compongono un «affresco di splendore e afflizione» dove una nuova Cvetaeva intona: «Mare smeriglio, mola di mare! Umile uzzolo:/pietruzza. Pomice», in una lingua diversa e sorprendente che si unisce in corale alle voci italiane in cui è risuonata via via, da Serena Vitale in poi, provando come da un diapason tanto ampio quanto quello di Cvetaeva sia possibile cavare sempre nuovi armonici.
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