Offensiva Isis a Anbar smaschera i gap della coalizione
Iraq Lo Stato Islamico occupa la periferia di Ramadi, dopo gli annunci vittoriosi del Pentagono. Dietro restano le discriminazioni contro la comunità sunnita, terreno fertile all'avanzata del califfo
Iraq Lo Stato Islamico occupa la periferia di Ramadi, dopo gli annunci vittoriosi del Pentagono. Dietro restano le discriminazioni contro la comunità sunnita, terreno fertile all'avanzata del califfo
Hanno avuto vita breve i vittoriosi annunci statunitensi: il Pentagono solo pochi giorni fa celebrava la riconquista da parte di Baghdad del 25% dei territori occupati dall’Isis. Celebrava e si auto-incensava: merito dei raid della coalizione. Di tutt’altra opinione chi sul terreno iracheno combatte e si attribuisce i successi: milizie sciite guidate dall’Iran, peshmerga kurdi e truppe governative.
Eppure oggi gli entusiasmi si smorzano: dopo aver perso Tikrit, gli islamisti hanno lanciato nuove controffensive, come spiegato nei giorni scorsi su queste pagine. Prima la raffineria di Baiji, la più grande del paese, ha subito rinnovati assalti; poi la provincia di Anbar, parzialmente occupata dal califfato, tornata centrale per gli equilibri del conflitto.
Ad Anbar, da sempre fonte di instabilità e ribellioni della minoranza sunnita, oggetto di marginalizzazione da parte del potere post-Saddam, si gioca buona parte della guerra. Epicentro dello scontro è il capoluogo Ramadi, con l’Isis che in questi giorni ha allargato le sue zone di influenza, occupando nuovi quartieri: la radio dell’Isis, al-Bayan, ha annunciato la conquista di sei zone della città. Ieri sera kamikaze hanno preso di mira edifici governativi e checkpoint militari. Un’avanzata che ha provocato, fa sapere il ministro iracheno dei Migranti e gli Sfollati, la fuga di oltre duemila famiglie.
A cadere in mano islamista sono stati mercoledì tre villaggi alla periferia di Ramadi, Soufiya, Albu-Ghanim e Sjariyah, ripetutamente bombardati ieri dalla coalizione. E ieri gli scontri tra forze governative e Stato Islamico sono proseguiti, seppure Baghdad preferisca minimizzare le perdite e annunciare la distribuzione di armi a 5mila miliziani tribali alleati.
A conti fatti, il califfo avanza o arretra? Di certo mantiene le posizioni. Come spiega l’analista Afzal Ashraf in un’intervista alla Cnn, «è sempre problematico pensare in termini di punto di non ritorno: le insurrezioni per loro natura sono estremamente votate ad adattarsi al cambiamento. Ci sono perdite [per l’Isis] ma nelle zone di confine, a causa di pressioni convenzionali delle forze irachene, che però non rompono le linee islamiste».
Ma ciò che pare sfuggire alle analisi dei governi coinvolti nella guerra al califfo sono le radici dell’offensiva islamista. Al di là della riconquista di una città o una provincia, al di là della ripresa di Tikrit e della preparazione in pompa magna dell’operazione per Mosul, dal terreno non sono ancora scomparse, perché ignorate, le fonti di divisione interna, humus per il reclutamento islamista.
Anbar è target perché da anni la comunità sunnita soffre delle discriminazioni politiche ed economiche imposte dall’invasione Usa, dalla completa ristrutturazione delle istituzioni e dalla concentrazione del potere in mano sciita. Le ribellioni scoppiate negli anni dell’occupazione statunitense avevano radici profonde, che l’ex premier al-Maliki ha represso con la violenza. Il suo successore, al-Abadi, ha poche frecce al proprio arco: le unità volontarie sunnite, che avrebbero dovuto affiancare l’esercito regolare sciita, sono poche e male armate; le comunità sunnite sono state abbandonate alla loro sorte nei primi mesi di invasione islamista, dopo anni di isolamento economico e mancati investimenti per la ricostruzione.
La ricerca di una nuova identità ha spinto all’inizio non pochi iracheni sunniti – e tra loro gli ex militari ancora fedeli a Saddam – a salutare di buon grado l’avanzata dell’Isis, vedendoci dietro la possibilità di tornare al potere. Un bisogno di identità che è forse lo stesso che ha spinto un ex modello australiano di origini somale, a immolarsi sull’altare del califfo: Sharky Jama, 25 anni, è morto in Siria mentre combatteva per il califfo.
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