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Odissea postmodernista di László Krasznahorkai

Odissea postmodernista di László KrasznahorkaiAndré Kertész, da Surveillance

Le retoriche del Nuovo Millennio, della tabula rasa che promette una verginità anche all’epoca sfinita in cui viviamo, ha prodotto in letteratura una conseguenza almeno apparentemente paradossale: ha mitologizzato il […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 17 novembre 2019

Le retoriche del Nuovo Millennio, della tabula rasa che promette una verginità anche all’epoca sfinita in cui viviamo, ha prodotto in letteratura una conseguenza almeno apparentemente paradossale: ha mitologizzato il Novecento, facendone la cartina al tornasole per valutare ciò che è nuovo e ciò che non lo è. Nuovo, in questo nuovo inizio, è ciò che è vecchio: il gesto monumentale, la campata larga, di matrice modernista.

Knausgaard, Cartarescu, Bolaño, Nádas, Tokarczuk, Énard, Esterházy sono gli autori che, a diverse latitudini, hanno lasciato la propria impronta sull’asfalto fresco del Duemila. È successo, ogni volta, con la loro opera che più si accostava all’estetica primo novecentesca, spesso dopo tentativi più consoni all’epoca presente: La mia battaglia per Knausgaard, la trilogia L’abbacinante per Mircea Cartarescu, I detective selvaggi e ancora di più 2666 per Roberto Bolaño, I Vagabondi per Olga Tokarczuk, Bussola per Mathias Énard. Dietro, evidentissimi, ci sono Proust, Joyce e Kafka, nati tra il 1871 e il 1883. Non importa che alcuni di questi libri siano stati scritti a fine Novecento: è il Duemila che li ha incoronati, erigendo loro un monumento. Da impossibili che erano, sono transitati direttamente tra gli eccentrici, tra i fenomeni: la stranezza diventa pop, quasi rock estremo.

László Krasznahorkai, ungherese, classe 1954, va aggiunto al novero: non è un caso se il suo Satantango, esordio fluviale del 1985, ha dovuto aspettare il Millennio per essere celebrato come un evento letterario, dopo avere ispirato il monstrum cinematografico (432 minuti, sette ore) di Béla Tarr nel 1994. Ora Bompiani (che in questi giorni coraggiosamente pubblica anche Storie parallele di Nádas, l’altro degli imprescindibili e monumentali ungheresi) manda in libreria Il ritorno del Barone Wenckheim (nella traduzione encomiabile di Dora Varnai, pp. 640, e 28,00) un fiume inarrestabile, potentissimo, di scrittura; ma la storia occupa poche righe. L’ultimo discendente di una dinastia – il Barone Wenckheim, per l’appunto – dopo una vita spesa all’estero e fallita nei debiti di gioco, fa il suo ritorno dall’Argentina in una cittadina della provincia ungherese. Pompa magna per l’arrivo del fallito con il sangue blu, schierate le istituzioni locali, rintracciati gli amori del passato del Barone, gran clamore come comitato d’accoglienza, giornalisti pronti alla stazione.

Tutto andrà per il peggio, l’ospite si rintanerà nel carapace, visibilmente scosso e contrariato, e collasserrano in maniera ipertrofica la politica locale, il sistema mediatico e il romanzo stesso.
Sfinente per comicità slapstick e sarcasmo, quella di Krasnahorkai è quasi dichiaratamente una terza Odissea, dopo Omero e dopo James Joyce. Il Barone è l’Ulisse più contemporaneo, l’eroe del fallimento finanziario, l’idolo del crack. La bancarotta non è onta, fallito è colui che nella medietà diffusa, nel rumore bianco esistenziale, si stacca dallo sfondo. Il lignaggio del Barone fornisce il cortocircuito perfetto perché ci sia da scrivere per i giornalisti. Il suo ritorno a casa non è in segreto, non c’è vendetta da consumare con nessuno: Marika (Marietta per gli intimi) è una Penelope ripescata più per esigenze di copione, che per una reale coerenza degli affetti. Non è moglie ma è vecchia fiamma, destinataria delle lettere del Barone, e poi sempre meno fiamma e sempre più vecchia.

Quella di Krasznahorkai è un’Odissea postmodernista dal retrogusto balcanico: vi si respirano, soprattutto, gli echi del Bohumil Hrabal di Treni strettamente sorvegliati e La cittadina dove il tempo si è fermato. Impietoso, grottesco, elegantissimo, Il ritorno del Barone Wenckheim è una pernacchia al Millennio, al niente organizzato in forma isterica, al fallimento trasformato in evento, pur di sentire qualcosa, di provare qualcosa, pur di non avvertire il ronzio sordo della depressione generale: «quando l’uomo aveva visto la folla e la stazione piena di bandiere, era indietreggiato come se fosse stordito da quella visione, aveva tirato indietro la testa e il cappello e, come se non bastasse, in mezzo al mormorio perplesso della gente, aveva perfino richiuso la porta alle proprie spalle, e questo non se lo aspettava proprio nessuno, erano tutti lì fermi, con tanto di carrozza e coro femminile, con il Sindaco e i microfoni, le bandiere e lo striscione BENVENUTO, e quella era stata proprio una figura di merda epocale».

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