In Come diventare un artista, Jerry Saltz scrive che è necessario illudersi di esserlo, vivendo tutte le notti e tutti i giorni con demoni che ti dicono «che sei un impostore, che non hai idea di quello che stai facendo».
Se chiediamo a Gian Maria Tosatti (Roma, 1980), in margine al suo Episodio di Odessa, presso il Sanatorio sulle acque del lago salato di Kuyalnyk (episodio che insieme a quello di Istanbul, a maggio, costituisce il «Dittico del Trauma»), cosa significhi per lui essere un artista, risponde così: «Sinceramente, non ho mai problematizzato la questione dell’essere artista. Faccio semplicemente il mio lavoro, che consiste nel costruire strumenti utilizzabili. Nello specifico, sono specchi. Servono a guardarsi, a riconoscersi, se la loro formula è esatta».
L’Episodio di Odessa – dopo Catania, Riga e Cape Town – fa parte dell’articolato progetto Il mio cuore è vuoto come uno specchio (a cura di Kateryna Filyuk e Alessandra Troncone, realizzato con il sostegno dell’Italian Council) ed è l’installazione nata dalla lunga permanenza di Tosatti in Ucraina.

Che ruolo ha la committenza pubblica o, meglio, quale ruolo dovrebbe avere per un artista che non prescinde dalle sue intenzioni e si relaziona alla realtà fisica e politica?
Bisogna definire cosa s’intenda per committenza pubblica. Pubblica è anche una comunità con cui relazionarsi e che, a un certo punto, istituisce con un artista la possibilità di un’opera. Questo accade pure senza un contratto o una richiesta. Talvolta una comunità ha bisogno di dirsi qualcosa e lascia intuire la necessità che gli venga data una lingua per potersela dire. Mi è capitato in molti luoghi. Nella Jungle di Calais, ad esempio, il mio lavoro è stato proprio quello di provare a costruire una narrazione che permettesse agli abitanti di quel luogo di raccontarsi a se stessi – non più come migranti, ma come fondatori di una città – e poi di presentarsi agli altri. Lo Stato francese, comunque, rispose coi lacrimogeni e le bastonate. Scelsero di non ascoltare. Ma penso che anche solo il fatto di capire meglio se stessi mentre ci si racconta sia valsa la pena.
Se con pubblico, invece, immaginiamo l’apparato dello Stato, allora dobbiamo dire che non credo molto nell’idea di committenza, ossia di un soggetto istituzionale che chiede a un artista di produrre una certa opera. Nei secoli in cui gli artisti vivevano di questo abbiamo visto ogni tipo di strategie di fuga dalla commissione. Oggi che gli artisti non dipendono più da nessuno (fortunatamente), credo che il ruolo delle istituzioni sia essenzialmente quello di ascoltare le loro proposte e decidere, in piena libertà, come qualsiasi altro partner, se sostenere o meno un certo progetto.

Quando un’opera – che è anche una sorta di camouflage, come è il caso de «Il mio cuore è vuoto come uno specchio» – entra in relazione con il visitatore che l’attraversa, quale tipo di rispondenza si innesca tra creatore (artista) e spettatore?
Le opere che realizzo, spesso vengono disperse in una città, senza che nessuno lo sappia, senza che vi sia alcuna indicazione. Le si attraversa come qualsiasi altra esperienza della giornata e, in questo, sì, possono essere definite mimetiche. Perché credo che l’arte non abbia alcuna separazione rispetto alla vita. Vedere un atto di violenza o di gentilezza, in strada, ha su di noi un effetto. Lo stesso può produrre un’opera d’arte. Ed è sugli effetti che si pesa il valore di ciò che facciamo. Mi capita di spendere molto tempo a osservare i visitatori che escono dalle mie opere, senza che loro mi conoscano. Ascolto quello che dicono. Alla fine mi pare sempre che l’opera abbia «decompresso» dei loro ricordi mai processati, aggiunto le parole che mancavano all’enigma che li teneva in scacco. L’opera è un incidente, una trappola, deposta, spesso a tradimento, sulla traiettoria che porta il signor X da A a B, con l’intento di fargli cambiare rotta e farlo arrivare a C, dove forse, voleva realmente andare sin da principio, senza però saperselo confessare.

«Il mio cuore è vuoto come uno specchio» affronta e racconta la crisi (irrimediabile?) della democrazia in occidente…
Il mio progetto si limita a osservare questa crisi. La documenta, la mostra, la rende tangibile a chi non ne avverte l’evidenza, ovverosia a quelli che credono che si possa andare avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale. Un’opera d’arte non restituisce la conoscenza di un problema, ma il sentimento di quel problema. Non serve a spiegare per quale motivo il mondo abbia deciso di scaricarci e di sfilarsi le misere briglie che abbiamo provato a mettergli. Serve a farci sentire scaricati, insopportabilmente perdenti e soli, separati dall’armonia col mondo e con gli altri individui (che abbiamo aggredito con la nostra voglia di prevalere sulla natura). La rivoluzione non la fai quando ti spiegano cosa sia giusto e cosa sbagliato, ma quando senti nelle ossa che non sopporti più un certo sentimento di sconfitta.