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Odessa, modello cosmopolita di una porta dell’Europa

Odessa, modello cosmopolita di una porta dell’EuropaOdessa, Richelieu Street e Teatro dell’Opera negli anni novanta dell’Ottocento. Richelieu, nobile fuggiasco francese, fu tra gli edificatori della metropoli

Città storiche Puškin, che a Odessa scrisse l’«Onegin», si aspettava piuttosto un porto orientale; nei suoi racconti l’ebreo Babel’ non nascose l’astuzia levantina e la criminalità...

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 17 novembre 2013

Se si interroga un motore di ricerca/immagini, la prima foto di Odessa è quella del terminal portuale. Come Sevastopol in Crimea sarebbe divenuta sede della flotta militare russa e sovietica, così Odessa fu piuttosto scalo commerciale della vasta regione meridionale che Caterina di Russia, negli ultimi decenni del Settecento, annesse all’impero per merito dell’ammiraglio Potëmkin, strappandola alle popolazioni tartare e agli eserciti ottomani. Evidentemente, la città ucraina è ancora porta di transito di un’area geografica di grande interesse. C’è poi un’altra immagine, proprio strana: la cartina della battaglia di Odessa in cui si muovono le forze della Federazione e quelle del principato di Zoan. È una deformazione fantasy di ciò che era accaduto durante la seconda guerra mondiale con l’avanzamento delle truppe rumene e naziste. Una rievocazione in costume della vera battaglia del 1941 si celebra ogni anno.

Si può anche facilmente scovare Odessa in fiamme, un film del 1942, regia di Carmine Gallone a coproduzione italo-rumena, in cui la presa di Odessa viene interpretata come rivincita sui soprusi sovietici e antidoto alla decadenza dei costumi. Per associazione, potrebbe venire in mente un libro/film di una certa fama, Dossier Odessa: ma attenzione, si tratta solo di un ingannevole acrostico che nulla c’entra con la città. Finalmente appare un’immagine familiare: la scalinata Richelieu in una foto del 1935, dove ancora conserva le fattezze che aveva nel 1925, quando S. M. Ejzenštein vi girò la celeberrima scena di Corazzata Potëmkin. Ed ecco che, riapparendo questo nome, può terminare il breve surfing su quella buccia di superficialità dell’informazione che il Web sempre offre: almeno ora si possiede un cerchio, che ha qualche validità di stereotipo, entro cui raccogliere i quasi 230 anni di storia della città.

Ma se si volesse avere qualche riscontro di questa superficiale immagine di Odessa a soccorrerci arriva un libro di gradevolissima lettura, accompagnato da ventinove immagini in b/n, appena uscito nella neo-collana «La Biblioteca» di Einaudi: l’autore è Charles King, il titolo Odessa Splendore e tragedia di una città di sogno (traduzione di Cristina Spinoglio, pp. XIII-326, euro 30,00). Il racconto storico, che va dalla fondazione alla fine della seconda guerra mondiale, è interessante anche per un altro aspetto, marginale al suo contesto, ma pienamente riconoscibile: per essere cioè uno strumento di analisi dei contesti interculturali e di verifica della costruzione degli stereotipi. L’autore si muove da un’osservazione di Mark Twain, che arrivandovi nel 1867, registrava in un suo diario di viaggio, Innocenti all’estero, un testo un po’ trascurato dall’editoria italiana più recente, una sensazione di familiarità. Da che proviene quest’aria di casa? Twain vi giunge una settantina d’anni dopo la sua fondazione moderna e neppure a cinquant’anni da che prendesse un aspetto simile a quel che lui poteva vedere.
Prima, su quella sponda compresa tra l’estuario del Dnepr e la foce del Dnestr, c’era assai poco: Khadjibey era un villaggio con una fortificazione turca. Quelle terre meridionali, agli occhi dei Russi dovevano sembrare una specie di Frontiera, come il West: erano da colonizzare e civilizzare per sfruttarne le terre e per avere uno sbocco navale verso sud. Così nasce il progetto della Nuova Russia. Ma a costruire la metropoli ci pensarono in successione tre uomini: il mercenario napoletano De Ribas, il nobile fuggiasco francese Richelieu e finalmente il russo Voroncov, però cresciuto ed educato a Londra. Non c’è da stupirsi che Puškin, mandato d’autorità a Odessa, dove scrisse gran parte dell’Evgenij Onegin e dove amoreggiava con la moglie di Voroncov, manifestasse disagio per questo «stile di vita europeo», dato che si aspettava di trovare lì un porto orientale. Ma lo «stile europeo» apparteneva alle classi dominati e alle architetture, e modellava l’aura cosmopolita da cui la città fu circondata per lunghi anni, ma che poi perse in modo tragico. La popolazione nel suo insieme rispondeva di più a un’immagine multietnica: a questa brulicante umanità si devono la varietà dei commerci, di lingue, colori e odori. Greci, turchi, italiani, inglesi, francesi e, sentiti come una nazione a parte, gli ebrei, che sin dalle origini furono i quasi due terzi della popolazione. Per tutto l’Ottocento Odessa fu immaginata un po’ come una nuova porta d’oriente, una nuova Istanbul.

Lo stereotipo più solido nasce proprio in questo contesto meno elitario: l’astuzia levantina, la furbizia opportunistica ma anche la vocazione alla criminalità, dal furtarello alla frode, diventano tratti indelebili appiccicati agli abitanti e alla città. L’immagine, seppur con valori diversi dall’esecrazione, si sarebbe rafforzato anche tramite Isaak Babel’, che nei suoi Racconti di Odessa non volle dissimulare questi aspetti della città in cui era nato (molte pagine del libro di King sono dedicate al grande intellettuale sovietico, ed ebreo come tanti odessiti, che nel 1940 sparì misteriosamente negli uffici della polizia).

Tra i tanti motivi che misero a rischio quella convivenza, King sembra indicare la crescita demografica. In poco più di cento anni, la città crebbe fino a 650 mila abitanti, senza che fosse accompagnata da infrastrutture urbane (al punto che anche l’approvvigionamento dell’acqua potabile divenne un problema), e accompagnata invece da frequenti epidemie di peste, colera, febbri. La malavita e la malattia, due marchi non entusiasmanti per questa città, che tuttavia come in altre città del mondo, per esempio Napoli o Marsiglia, col tempo si sono diluiti nell’ironia nostalgica dei musicisti e dei film (su questo interviene uno dei capitoli finali del libro). Il deflagrare del modello multietnico e cosmopolita forse non si deve tutto al cattivo governo della città. La sua stessa floridezza economica comincia a scricchiolare dopo la guerra di Crimea (1853), quando l’occidente non vede più nei flussi commerciali delle granaglie quel grande tesoro da difendere. Nella seconda metà dell’Ottocento, la Russia è investita dal terrore: dei complotti e delle rivolte come della repressione crudele e del controllo ferreo di ogni movimento politico. In questo contesto si scriverebbe la seconda parte della storia di Odessa. La complicata composizione di quest’organismo urbano, secondo King fu ampiamente sfruttata per contenere e sedare le più diverse tensioni politiche e rivendicazioni: ora di un nazionalismo crescente, che ideologicamente tendeva a limitare e a prevaricare i diritti delle tante componenti culturali e nazionali; ora in nome di maggiore uguaglianza, che confusamente identificava posizione economico-sociale e appartenenza etnica. La parte di popolazione che più soffrì di questo clima di ostilità fu quella di religione ebraica. In circa trenta anni, il pogrom divenne sempre più frequente e tanto temuto da accelerare la fuga di ebrei dalla città.
L’apice di queste violenze si raggiunse in un contesto davvero eccezionale di insurrezioni e scioperi e rivolte: è l’anno 1905, quello che sarebbe poi diventato per i Bolscevichi l’anno della piccola rivoluzione. Se è vero che è un mito, come King in tutti i modi si adopera a dimostrare, Corazzata Potëmkin avrebbe contribuito molto alla sua definizione. Certo il film riesce a condensare in una sola immagine l’eroicità e il sacrificio della rivolta popolare come l’audacia di singoli uomini: e tutto accade su quella scalinata che in questo modo avrebbe identificato a sé Odessa e con la città lo spirito della rivoluzione. Mito, forse sì, comunque ispirato da un’idea di solidarietà tra popoli e classi sociali che avrebbe anche potuto contribuire ad attenuare le rivalità interculturali perseveranti.

L’autore non ha del tutto torto a concentrare l’attenzione, nel finale del libro, sul destino degli ebrei di Odessa: quando nel 1941 le truppe rumene prendono il controllo della città, compiono l’atto sistematico di concentrazione, deportazione e soppressione della popolazione ebraica e chi sopravvive è in fuga. Una tragedia che per fortuna non si è amalgamata con l’immagine della città, pur essendone necessario il ricordo. Almeno questo episodio non sopravvive in nessuno stereotipo.

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