Occupazione CasaPound, 8 dirigenti statali a giudizio per danno erariale
Via Napoleone III Ai funzionari pubblici contestati omessa disponibilità del bene e mancata riscossione dei canoni quantificati in 4,5 milioni di euro
Via Napoleone III Ai funzionari pubblici contestati omessa disponibilità del bene e mancata riscossione dei canoni quantificati in 4,5 milioni di euro
Il palazzo di via Napoleone III, al centro di Roma, che ospita la sede nazionale di CasaPound assieme all’abitazione di alcuni dei suoi dirigenti finisce sotto l’occhio della Corte dei conti proprio alla vigilia del suo sedicesimo compleanno: venne occupato il 26 dicembre 2003 per provare a costruire un immaginario di estrema destra attorno alla pratica, prima di allora tutta antifascista e legata ai movimenti sociali, delle occupazioni. Adesso otto persone fra dirigenti del ministero della pubblica istruzione, ente proprietario dell’immobile, e agenzia del demanio sono stati citati in giudizio per il danno causato alle casse pubbliche in questi anni da parte dei sedicenti «fascisti del terzo millennio»: il danno calcolato è di 4,5 milioni di euro.
L’udienza è stata fissata per il prossimo 21 aprile. Secondo la corte dei conti i dirigenti non hanno preso misure per riscuotere un prezzo per l’uso dell’immobile o per fare in modo che questo ritornasse a disposizione dell’interesse pubblico. La questione è delicata, perché nel recente passato misure analoghe avevano colpito centri sociali e occupazioni romane. In quel caso, poi, la stessa magistratura contabile aveva ammesso il valore sociale e culturale di quelle esperienze e riconosciuto che «la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rende utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali».
È il caso di dire che si rischia di fare tutta l’erba un fascio, ma la vicenda della sede degli estremisti di destra appare diversa da ogni punto di vista, anche se questi da sempre cercano di porsi sotto l’ombrello dell’«utilità sociale» e di sfruttare a loro vantaggio i margini di trattativa faticosamente aperti dai movimenti sociali per rivendicare l’apertura dal basso e l’autorecupero degli stabili dismessi. Nel corso degli anni, la base di via Napoleone III è servita per provare (con scarsi risultati) l’avventura elettorale. Con migliori esiti, questo spazio sorvegliato da telecamere e col portone sempre sbarrato ha funzionato da ideale baricentro per diverse operazioni imprenditoriali: nel triangolo compreso tra l’affollata stazione Termini, il gentrificato quartiere Monti e lo snodo di piazza San Giovanni dopo CasaPound hanno aperto numerosi esercizi commerciali chiaramente riconducibili al circuito dell’estrema destra: sono birrerie, negozi di vestiti e ristoranti.
Il provvedimento di citazione a giudizio afferma che il palazzo di sei piani «è un bene di proprietà dello stato, appartenente al patrimonio indisponibile», quindi «non è tollerabile in uno stato di diritto una sorta di ‘espropriazione al contrario’». Dunque, i funzionari competenti sono chiamati ai danni per non aver dato «disposizioni per agire in via di autotutela amministrativa». «Bisogna liberare al più presto quell’immobile dall’illegalità», commenta la sindaca di Roma Virginia Raggi, che da tempo ha ingaggiato una battaglia sullo sgombero di CasaPound, arrivando a presenziare alla richiesta di demolizione dell’insegna di marmo in stile littorio che fino a qualche mese fa campeggiava sopra l’ingresso del palazzo. Quelli di CasaPound fecero i gradassi, sfidarono la legge petto all’infuori e minacciarono fuoco e fiamme. Ma alla fine smantellarono con solerzia l’insegna marziale che campeggia a ridosso della multietnica piazza Vittorio.
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