Internazionale

«Occupare per vivere, ma anche per cambiare»

«Occupare per vivere, ma anche per cambiare»Istanbul, la fabbrica recuperata Kazova

Turchia Nihat Ozbey, operaio della fabbrica Kazova

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 2 aprile 2015

«Abbiamo subito una forte repressione, ma continuiamo a resistere e siamo qui per condividere la nostra esperienza». Così dice al manifesto Nihat Ozbey, operaio turco della fabbrica occupata Kazova Tekstil. Ozbey è venuto in Italia per partecipare all’incontro internazionale sulle imprese recuperate che si è tenuto a Roma, al centro sociale occupato Communia. L’iniziativa ha messo a confronto esperienze europee e argentine, anche a partire dal libro di Andres Ruggeri Le fabbriche recuperate, edito da Alegre. Dopo il cammino aperto dall’Argentina, anche in Europa i lavoratori cercano sempre più spesso di parare i colpi della crisi rimettendo in funzione le fabbriche dismesse o abbandonate. In Italia, oltre una trentina di piccole e medie imprese, chiuse o fallite, sono state rimesse in moto dai lavoratori che hanno creato cooperative. Tra queste, Officine Zero e Ri-Maflow. Hanno fatto così anche gli operai turchi della fabbrica tessile Kazova, che ha sede nel distretto di Sisli, a Istanbul, a poca distanza dalla piazza Taksim: all’inizio non per scelta, ma per necessità.

Com’è cominciata l’occupazione?

Verso la fine del 2012 eravamo in 94. L’impresa ci ha detto che, se volevamo rimanere, dovevamo rassegnarci ai ritardi nello stipendio perché aveva difficoltà economiche. Abbiamo accettato, ma alla fine di gennaio 2013 ci hanno mandato in vacanza per una settimana. Quando siamo tornati, i Sumuncu avevano quasi smantellato la fabbrica, portandosi via gran parte dei maglioni lavorati, la materia prima e i nostri stipendi non pagati. Eravamo senza lavoro. Abbiamo cominciato a manifestare, ci siamo accampati davanti alla fabbrica per presidiare i macchinari rimasti. La polizia ha attaccato, ma abbiamo resistito. Il 28 giugno abbiamo occupato in 20 e il 14 settembre abbiamo ricominciato a produrre maglioni e a venderli a prezzi popolari, prima davanti alla fabbrica, poi nelle assemblee di quartiere con la scritta: «Questo è un prodotto della resistenza di Kazova». Abbiamo anche organizzato una sfilata di moda proletaria con un concerto del gruppo Grup Yorum, musicisti comunisti. A fine ottobre, la sentenza di un tribunale ha stabilito che i proprietari dovevano renderci i macchinari per compensare i salari non pagati. Così abbiamo potuto cominciare a pagarci uno stipendio, uguale per tutti.

Chi vi ha appoggiato in questo percorso? Come hanno reagito gli altri operai?

In Turchia il capitalismo è molto aggressivo contro gli operai, abbiamo un governo fantoccio nelle mani degli Stati uniti, che ha privatizzato tutto e ha venduto tutte le imprese di stato al grande monopolio. Oltre il 90% degli operai non è iscritto al sindacato, il sistema di subappalto distrugge l’unità. Subito dopo l’inizio della nostra resistenza, è scoppiato il movimento di Gezi Park. Abbiamo partecipato, e dopo il movimento è venuto a sostenerci. Il primo appoggio lo abbiamo avuto dal sindacato Dih Movimento rivoluzionario degli operai, che ci ha dato una formazione politica e teorica. Ora anche altri operai provano a occupare le fabbriche quando subiscono ingiustizie. E a Istanbul si dice: prima di Kazova e dopo Kazova. All’inizio era venuto anche il movimento curdo, ma poi non si è più visto. Ora con il Dih siamo organizzati e anche altre forze di sinistra ci sostengono. Il movimento di Gezi Park, che continua a fare incontri nei vari parchi, parla della nostra lotta e le persone poi vengono a trovarci. Facciamo assemblee con i famigliari dei prigionieri politici, con gli studenti dei quartieri poveri, seminari sul marxismo e il consigliarismo. Molta gente che viene a visitarci compra i nostri maglioni. Siamo stati aggrediti da mercenari, picchiati dalla polizia, ma abbiamo resistito e continueremo a farlo perché abbiamo una prospettiva e speriamo di contribuire a organizzare un cambiamento profondo in Turchia.

Fra voi ci sono delle donne? Come sono i rapporti con le operaie?

Sì, ci sono delle donne, una inizialmente era molto di destra, simpatizzava per i Lupi Grigi. C’è chi è molto osservante, prega cinque volte al giorno. All’inizio, tutti eravamo diversi, poi abbiamo fatto le cose insieme, ci siamo battuti insieme contro la polizia, e la realtà è cambiata. Anche l’operaia osservante ha fatto i turni di guardia come tutti, il lavoro collettivo e la formazione politica hanno cambiato anche le relazioni umane, che ora sono di completa parità e condivisione.

Qual è adesso la situazione, quali sono i vostri obiettivi?

Vogliamo continuare a produrre collettivamente, lavorare e condividere collettivamente, creare una rete di vendita e sostegno nazionale e internazionale. Soprattutto vogliamo diffondere l’esperienza, tessere una rete con quanti, dentro e fuori il paese rispondono ancora all’invito di Marx: proletari di tutti i paesi, unitevi.

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