Cultura

Occitania, alle radici di una lingua lontana eppure vivace

Occitania, alle radici di una lingua lontana eppure vivace

SCAFFALE Un volume a cura della filologa Monica Longobardi getta luce su un patrimonio di autori e autrici spesso dimenticati

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 5 febbraio 2020

Nell’ambito di uno degli ultimi «Colloqui del Tonale», dedicati alle Periferie, in un podere immerso nella campagna del Parco dell’Uccellina, Monica Longobardi, docente di Filologia Romanza a Ferrara e promotrice di una cattedra di Letteratura Occitanica Contemporanea nella sua università, ha parlato delle «periferie romanze».

Il titolo è la citazione di un suo saggio del 2016 sulla rivista digitale di sociolinguistica «Lengas», in cui la studiosa già lanciava un grido di allarme per l’indebolirsi della «memoria che ci lega sia a un passato condiviso, che alle nostre culture minoritarie, periferie dove la modernità rallenta la sua macina che destina all’oblio lingue e culture meno competitive». Da questa sorta di missione civica di risarcimento pubblico ai «trovatori della lontananza», relegati per discriminazione linguistica ai margini delle letterature ufficiali, nasce Viaggio in Occitania, edito da VirtuosaMente (pp. 295, euro 29), che si apre con la prefazione della francesista Fausta Garavini, allieva di Contini, la quale ha idealmente passato a Monica Longobardi il testimone della sua passione per la cultura dell’Occitania contemporanea.

SI TRATTA di un bel libro denso, suddiviso in tre sezioni corrispondenti ad altrettanti autori in lingua d’oc del secolo scorso o, nel caso di Joan Ganhaire, ancora viventi, i quali – per citare un’affermazione di Delavouët – avvertono il provenzale come una lingua nuova, non usurata, che mantiene sia la sua concretezza primigenia che la sua sensualità e, come tale, fatta per la poesia. Il centro di tutto è il paesaggio naturale, visto nelle sue diverse declinazioni.

Ora è lo stagno paludoso della Camargue, in cui incontriamo il panico fauno quattrocentesco che dà il titolo al suggestivo racconto La Bestia del Vaccarès del fondatore della prosa d’arte occitana Jóusè d’Arbaud (morto nel 1950); ora il grande fiume Rodano in cui fluttua la bara della Storia del re morto che andava alla discesa di Mas-Felipe Delavouët, poeta-contadino per scelta che ci presenta con viva concretezza le fasi dell’imbalsamazione di questo nobile corpo; infine la foresta di Feytaud, in Dordogna, dove il medico di campagna Joan Ganhaire ambienta ai tempi della terza crociata l’insolita storia del licantropo Arnaud e forse anche il Grande Bosco della favola gotica contemporanea Il sentiero dei ginepri.

Opere e autori di cui finora non esisteva traduzione italiana (e di alcuni, polemicamente, nemmeno francese), e che il libro di Longobardi ci fa finalmente conoscere, confermando che, dopo secoli di repressione, l’Occitano portato all’attenzione internazionale dal premio Nobel Frédéric Mistral non è oggi una pura sopravvivenza letteraria, ma una lingua viva che abbraccia l’ampia area europea che travalica il sud della Francia, estendendosi dalla Val d’Aran della Spagna pirenaica fino alle nostre valli piemontesi.

TESTIMONE di questa vitalità di una lingua minoritaria che difende se stessa aprendosi al mondo è la straordinaria esperienza del Premio di Scritture in lingua madre: un «festival della biodiversità linguistica» che si svolge ai piedi del Monviso nel minuscolo paese di Ostana – 85 abitanti – e che ogni anno chiama e premia chi, come autori, registi, traduttori, cantanti, ecc., fa vivere in diversi campi culturali lingue dei cinque continenti a rischio di estinzione. Esempio virtuoso, questo, della strada indicata da Rossano Pazzagli nel suo precedente intervento nell’ultima serie dei «Colloqui»: la valorizzazione delle specificità culturali, sociali, storiche delle aree marginali dell’interno impedisce la loro scomparsa e contribuisce in modo decisivo alla diversità necessaria per uno sviluppo armonico delle civiltà.

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