Il 30 maggio scorso Carlo Petrini, fondatore e presidente internazionale di Slow Food, ha ricevuto il diploma di socio onorario dell’Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona. La motivazione di questa scelta nelle parole di Claudio Carcereri de Prati, presidente dell’Accademia: «Di Petrini apprezziamo l’impegno nel mantenere vivo il rapporto uomo, natura, produzione agricola e tutela del consumatore. Vorrei ricordare che quando è stata fondata l’Accademia, nel 1768, tra gli scopi vi era quello di dare la giusta attenzione alla produzione agricola e allo sviluppo della stessa. Oggi però la nostra attività deve avere anche altri obiettivi come quello di aiutare a risaldare il rapporto tra agricoltori, natura e consumatori. In quest’ottica la figura di Petrini è sicuramente centrale ed è un punto di riferimento internazionale». E questo lo dimostrano i tanti attestati che ha ricevuto, tra i quali, quello del 2008 quando The Guardian lo aveva inserito tra le 50 persone che «potrebbero salvare il pianeta». Sua anche la prefazione all’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.

Slow Food, la sua creatura, è oggi diffusa in 150 Paesi ed è impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. Da uno di questi Paesi martoriati dalla guerra, l’Ucraina, siamo partiti per la nostra intervista.

Petrini, ha notizie recenti degli agricoltori che fanno parte della rete Slow Food in Ucraina?

Le ultime notizie che abbiamo ci dicono che le nostre comunità sono rimaste sul territorio e che portano avanti il loro lavoro con tutte le difficoltà del momento, che dipendono anche dall’area in cui si trovano. Alcune sono in uno stato di guerra ma non minacciate, altre invece hanno subito distruzioni. Nessun contadino è però uscito dal Paese.

In seguito all’invasione russa è diminuito in maniera drastica il flusso di grano verso molti Paesi dell’Africa del Nord, del Medio Oriente e dell’Asia mettendo a forte rischio la loro sicurezza alimentare. Ricordiamo che l’Ucraina è il quinto esportatore di grano del mondo, la Russia il primo. Qual è il suo pensiero?

Bisogna sbloccare urgentemente questa situazione garantendo che questi stoccaggi di grano arrivino a destinazione al più presto, specialmente per quelle popolazioni che senza quel grano sono in uno stato critico di carenza di cibo e quindi di fame annunciata. Secondariamente, se non si sblocca questa situazione è inimmaginabile che si possa realizzare il nuovo raccolto perché non ci sarebbero luoghi in cui stoccarlo.

Lei parla spesso dell’importanza della sovranità alimentare, molto meno lo fanno invece i nostri politici. A tal proposito, ricordo che la Francia ha da poco ribattezzato il ministero dell’Agricoltura e dell’alimentazione in «ministero dell’Agricoltura e della sovranità alimentare». Perché sarebbe importante anche per l’Italia?

Per un duplice motivo. Quello più forte è perché questa linea valorizza l’economia locale. Se l’agricoltura deve, giustamente, essere decentralizzata e quindi essere espressione di ogni realtà, bisogna che laddove si porta avanti questa produzione ci siano le garanzie affinché sia assorbita dal territorio e pagata giustamente. Non si può pensare che possa esistere una politica alimentare senza l’economia e la produzione locale. Secondariamente questi presidi sul territorio garantiti dalla sovranità alimentare, che non è autarchia, sono parte integrante della biodiversità in ogni luogo. La forza di questo sistema risiede nella ricchezza di biodiversità. Se io vado a inficiare la realizzazione di economie e produzioni locali perdo inevitabilmente biodiversità. Quindi questi due aspetti, quello produttivo che garantisce la biodiversità e quello dei presidi di economia locale, sono i motivi per cui la sovranità alimentare va perseguita con determinazione. Purtroppo, questo non avviene sempre e quindi noi siamo sotto schiaffo rispetto ad esternalità che ci capitano. Per fare un esempio molto concreto: fino a cinque anni fa la produzione autoctona italiana di grano veniva remunerata ai contadini al prezzo che veniva loro garantito trentacinque anni fa. Sarebbe come dire che io vado a lavorare e prendo uno stipendio di trentacinque anni prima. Davanti a questa situazione i contadini hanno preso le loro decisioni smettendo di coltivare il grano e scegliendo altre colture. Nelle mie zone pianeggianti (le Langhe, ndr) dove da sempre c’era il grano ora c’è il nocciolo perché rende di più. Dopo questa crisi causata dalla guerra in Ucraina si avvertono segnali di minor incidenza di grano, ecco allora che il mercato italiano è disposto a pagarlo di più. Come si può capire, per aver mortificato la sovranità alimentare di un bene primario come il grano, a causa di una economia globalizzata che garantiva prezzi bassi e non remunerativi per i produttori locali, adesso davanti alla prima esternalità forte noi paghiamo dazio.

Alcuni stati dell’Unione europea chiedono di sospendere le strategie «Farm to Fork» e la tutela della biodiversità per avere mano libera nelle coltivazioni. Lei che idea si è fatto di queste richieste?

Questa situazione sta mettendo in secondo piano tutte le pratiche virtuose che avevamo previsto di realizzare per la transizione ecologica. Adesso l’esigenza è produrre di più e quindi va bene tutto. Addirittura, sento parlare di riproposizione degli Ogm. Io invece penso che occorra tenere il piede fermo e non mollare su questi punti.

Non stride che circa la metà dei terreni agricoli europei sia destinata alle coltivazioni che servono per alimentare gli animali e non l’uomo?

Questo non riguarda solo l’Europa ma a tutto il mondo. Noi abbiamo l’80 per cento della superficie destinata all’alimentazione umana che è occupata da spazi per animali d’allevamento. Se non si riduce il consumo di carne, specialmente nei Paesi più sviluppati, e se per ipotesi l’altra parte del mondo dovesse consumare la carne che consumiamo noi, non basterebbero tre pianeti per poter dar da mangiare agli animali. La questione sta diventando assurda.

Lei sostiene la tesi che la principale responsabile dello sconquasso ambientale è la politica alimentare. Perché?

Il sistema alimentare incide sulle emissioni di gas serra per il 34 percento. Tutto il comparto dei trasporti via terra, mare e cielo incide per il 17 per cento, questo per dare un’idea degli impatti. Tutto ciò sta a significare che la politica che governa le produzioni agricole è malsana e pericolosa. Dico questo conscio del fatto che circa un terzo del cibo prodotto viene scartato e gettato prima di essere consumato. Sto parlando dell’utilizzo di milioni di ettari che potrebbero essere restituiti alla natura; di miliardi di litri di acqua che vengono sprecati; di chili di sostanze chimiche che vanno a intaccare la fertilità dei suoli inutilmente. Sulle basi di queste considerazioni, emerge che a livello globale venga rivisto questo modello di politica alimentare.