Obbligo di vaccini, la finta quiete dopo la tempesta
La questione spinosa Draghi senza più scettro abbassa i toni in vista del voto sul Quirinale
La questione spinosa Draghi senza più scettro abbassa i toni in vista del voto sul Quirinale
Se non tutti contenti, nessuno scontento. Salvini, che dell’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni non può neppure fingersi soddisfatto, parla d’altro, di nucleare da rispolverare. Quanto alla ferita aperta, rinvia a Giorgetti: «È lui che si occupa del governo». Formula da cui traspare tutta la disaffezione del leghista nei confronti di un esecutivo che non vede l’ora di lasciare.
I 5S, che ancora dopo la riunione della cabina di regia, mercoledì, di obbligo nemmeno volevano sentir parlare oggi plaudono. I deputati almeno, perché i senatori, molto più riottosi, sono più laconici. Anzi muti. Letta incassa: «Scelta coraggiosa, importante». Lui avrebbe preferito l’obbligo per tutti, si sa, ma il ghiaccio è rotto e il tema tornerà probabilmente in ballo. Fi esulta e in fondo è stato proprio un olimpico Brunetta a sobbarcarsi la trattativa con i leghisti nel momento più incandescente del cdm. «L’obbligo per gli over 50 è un’esigenza oggettiva», chiosa la capogruppo al Senato Bernini. Persino il premier, che pur non aduso a simili trattative sulle virgole, fa sapere di essere soddisfatto per l’esito della maratona. Messa così sembra che davvero tutto, nel complesso, sia filato liscio.
Ma è apparenza e a dimostrarlo c’è la decisione di glissare sulla conferenza stampa post cdm che, a fronte di un provvedimento di tale momento, sarebbe dovuta essere fuori discussione. Ma ci sono anche le assenze eccellenti e mirate. In cabina di regia non c’era Giorgetti, richiamato da imprescindibili impegni a Varese, e non c’era neppure Patuanelli per i 5S, sostituito dalla meno impegnativa Dadone. La quiete dopo la tempesta non è il segnale di una pur minima coesione ritrovata ma piuttosto della decisione comune di non smuovere le acque sino all’elezione del prossimo presidente. Del resto, l’inusuale disposizione di Draghi a una raffica di mediazioni è a propria volta un prodotto di quella scadenza imminente. Solo a quel punto, a presidente eletto si dovranno fare i conti con il quadro che è emerso dalla giostra impazzita di mercoledì, sintetizzato con i fedelissimi proprio da Giorgetti: «La stagione politica del governo Draghi è finita».
La cifra di quella stagione politica, in fondo, era elementare. I partiti della maggioranza avevano in comune una cosa sola: il sostegno al presidente del consiglio e dunque la disponibilità, magari celata dietro ruggiti d’ordinanza, a uniformarsi, con rarissime e circoscritte eccezioni, al suo dettato. Draghi, consapevole dell’equilibrio reale, non mancava di esercitare il ruolo commissariale, tagliando corto con una drasticità solitamente sconosciuta nella politica italiana. La trattativa estenuante che alla fine ha prodotto il decreto dell’obbligo si è svolta seguendo tutt’altro copione.
Se Draghi ha evitato atti d’imperio non è solo perché avrebbero danneggiato la sua candidatura ancora in pectore ma perché è consapevole che, superato il confine della legge di bilancio, i partiti non sono più disposti a farsi relegare in panchina, in attesa delle decisioni dall’alto.
Dunque, una volta eletto il successore di Mattarella, i partiti stessi, con Draghi o senza Draghi a palazzo Chigi, dovranno riprendere in mano la situazione e scegliere se andare al voto subito, mantenere la stessa maggioranza ma stavolta con una presa di responsabilità non limitata a convergere sul nome del premier, oppure se tentare l’azzardo della quarta maggioranza politica della legislatura. Una maggioranza Ursula con la Lega all’opposizione, come piacerebbe tanto a Giorgetti quanto a Salvini. Sempre che Letta sia disposto al sacrificio.
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