E’  cauta la linea degli Stati Uniti sugli sviluppi della crisi egiziana. Barack Obama non scarica (almeno per ora) Mohammed Morsi, un presidente islamista che non ha mai messo in discussione l’alleanza tra il suo Paese e gli Stati Uniti e gli interessi di Washington nella regione. Allo stesso tempo, notava ieri il quotidiano conservatore Wall Street Journal, l’Amministrazione Usa di fatto ha taciuto sull’ultimatum lanciato lunedì a Morsi dal Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane, facendo intendere che gli Usa non vedrebbero con sfavore un colpo di stato militare, o qualcosa di simile a quello che è successo nel 2011 quando i generali egiziani diedero colpo di grazia alle residue velleità del raìs Hosni Mubarak di restare al potere.

Obama nella notte tra lunedì e martedì, dalla Tanzania dove era in visita, ha telefonato a Morsi. Del contenuto colloquio si è saputo poco, se non che il presidente americano ha “suggerito” al suo omologo egiziano di «ascoltare il popolo»  e che gli Stati Uniti non si schierano con alcuna delle parti in conflitto. In realtà Obama ha tutto da guadagnare da una soluzione pacifica della crisi egiziana, che non porti alla caduta rovinosa di Morsi e dei Fratelli Musulmani. L’Esercito egiziano pur vantando rapporti stretti con il Pentagono e pur essendo dipendente dall’aiuto finanziario americano, è incline, entro una certa misura, a favorire le forze laiche egiziane che, a differenza dei Fratelli, sono meno compiacenti verso gli «alleati statunitensi» e più ostili nei confronti di Israele. Obama non è un islamofobo come il suo predecessore George W. Bush, anzi. Ha compreso subito che la Fratellanza Islamica, emersa come principale forza politica dalle «primavere arabe» in vari Paesi della regione, può rappresentare una alternativa “valida” ai leader nazionalisti e ai dittatori. E’ una partner valida e affidabile, custode in Medio Oriente della stabilità a stelle e strisce che ha il suo elemento centrale nella supremazia militare dello Stato di Israele.

La Fratellanza egiziana dopo aver vinto le elezioni parlamentari e presidenziali non solo ha dimenticato uno dei temi centrali della sua campagna elettorale, la revisione degli Accordi di Camp David con Israele, ma ha anche puntato gran parte della politica estera egiziana sull’avvio di forti relazioni con gli Stati Uniti che, da parte loro, hanno ricambiato confermando l’aiuto annuale all’Egitto (oltre 2 miliardi di dollari) e regalato aerei da combattimento e altre armi. Senza dimenticare che il passato Segretario di Stato Hillary Clinton ha intrattenuto rapporti ottimi con le autorità egiziane post-Mubarak e che l’ambasciatrice statunitense al Cairo, Anne Patterson, mantiene contatti stabili con il numero 2 della Fratellanza, il potente uomo d’affari Khaiter al Shater, considerato il vero leader del movimento islamista.

Morsi da parte sua ha attaccato ripetutamente Bashar Assad, rallegrando Washington, fino a rompere le relazioni con Damasco. Un passo enorme se si considera che ai tempi del presidente Gamal Abdel Nasser, Egitto e Siria per qualche tempo erano stati un unico Paese. «Ciò è stato dovuto anche al bisogno di riconoscimento internazionale da parte dei Fratelli Musulmani e non c’è via migliore per ottenerlo che non passi per le buone relazioni con gli Stati Uniti», spiega l’analista Mouin Rabbani. Non sorprende perciò che Washington sia stata una delle capitali occidentali che meno criticò Morsi quando il presidente egiziano, lo scorso novembre, adottò provvedimenti autoritari contro la magistratura e impose una Costituzione di segno islamista contro il parere delle opposizioni laiche. «All’attuale Amministrazione Usa i Fratelli musulmani vanno bene, altri presidenti americani li consideravano ostili, invece oggi sono partner a tutti gli effetti», aggiunge Rabbani. Ecco perchè due giorni fa alcuni neocons, come Elliott Abraham, accaniti sostenitori durante la presidenza Bush dello scontro duro con gli islamisti, senza fare differenza tra qaedisti e i Fratelli, hanno colto l’occasione per accusare Obama di non aver preso una posizione più dura contro  Morsi e «a favore della democrazia».

In ogni caso anche per questa Amministrazione la sicurezza di Israele resta prioritaria e al Cairo andrà bene qualsiasi autorità egiziana, non importa il suo colore, purchè non metta in discussione Camp David. A Tel Aviv invece vedono le cose in modo un po’ diverso. Per i leader israeliani non c’è stato e non ci sarà mai miglior presidente egiziano del dittatore Hosni Mubarak, garante per 30 anni di intese ed interessi reciproci e, proprio per questo, sostenuto nei giorni della rivoluzione del 25 gennaio dal premier Netanyahu. Quest’ultimo non può lamentarsi neanche della politica estera dei Fratelli Musulmani ma non riesce proprio a digerirli. Lo preoccupano di più però i nazionalisti laici che a differenza degli islamisti non guardano ai palestinesi come a una frazione dell’Umma, la nazione islamica, ma come a un popolo che ha diritti legittimi sulla terra di Palestina.