Obama contro tutti: «Libia nel caos per colpa di europei e Clinton»
Medio Oriente Il presidente è un fiume in piena: affondi su Cameron, Sarkozy e sauditi. Ma se critica l'operazione contro Tripoli del 2011 oggi sta partecipando alla preparazione di una nuova campagna
Medio Oriente Il presidente è un fiume in piena: affondi su Cameron, Sarkozy e sauditi. Ma se critica l'operazione contro Tripoli del 2011 oggi sta partecipando alla preparazione di una nuova campagna
«La Libia è nel caos». Il presidente Usa Barack Obama segue le orme dei predecessori e a 5 anni dalla campagna Nato contro la Libia critica quell’operazione. Ma non se ne assume del tutto la responsabilità: la scarica sui suoi consiglieri, sull’Europa e sul Golfo.
In un’intervista alla rivista The Atlantic, Obama si è tolto tutti i sassolini che aveva nella scarpa. Interventi a gamba tesa su tutti: ha lamentato la mancanza di sostegno da parte degli alleati europei e delle petromonarchie del Golfo, le divisioni tribali del paese, gli errori commessi dai suoi stessi consiglieri. Come Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, il cui piano di intervento «non ha funzionato». L’affondo del presidente arriva nei giorni caldi delle primarie democratiche e fa tremare la campagna elettorale della Clinton.
«Quando guardo indietro e mi chiedo cosa è andato storto, mi critico perché ho creduto che gli europei, per la vicinanza alla Libia, si occupassero del follow-up». In particolare, Obama punta il dito sul premier britannico Cameron e sul presidente francese Sarkozy che hanno permesso che la Libia si trasformasse da entità statale a problema ingestibile. Si è «distratto», dice con ironia Obama del primo ministro di Londra, contribuendo così ad «uno spettacolo di merda».
La Francia, invece, si vantava di «tutti gli aerei abbattuti, seppur fossimo stati noi a distruggere le difese aeree». E se gli europei sono «opportunisti» perché fanno pressioni sugli Usa per poi tirarsi indietro, i sauditi infiammano conflitti in tutta la regione e per questo hanno perso il sostegno acritico di Washington.
Al contrario gli Stati Uniti, secondo il presidente, hanno portato avanti l’operazione come previsto. Solo che non ha funzionato: «Abbiamo avuto il mandato Onu, abbiamo creato una coalizione, l’operazione ci è costata un miliardo di dollari. Abbiamo evitato vittime civili su larga scala. Nonostante ciò la Libia è nel caos».
Solo su un punto Obama si dice soddisfatto: non aver lanciato, nel settembre 2013, l’operazione contro la Damasco di Assad. «Sapevo che premere il pulsante di pausa avrebbe avuto il suo costo politico, ma mi sono svicolato dalle pressioni e ho pensato in modo autonomo». Più o meno: all’epoca a obbligare Washington a tirare il freno fu l’intervento diplomatico della Russia
Il mea culpa con il senno di poi è una caratteristica di molti leader. C’è chi si scusa per l’Iraq, c’è chi dice che l’interventismo internazionale ha creato l’humus per la nascita di al Qaeda prima e l’Isis poi. Eppure la strategia resta la stessa: l’Obama che critica quell’operazione è lo stesso che ha sul tavolo il piano del Pentagono per un nuovo intervento in Libia. È il capo dell’amministrazione che fa pressioni sull’Italia per avere Sigonella e che accetta la spartizione decisa dagli europei di un paese già frammentato. Ed è colui che fu a capo della coalizione anti-Gheddafi, senza che esistesse una reale alternativa politica al colonnello.
Difficile quindi che le critiche dell’inquilino della Casa Bianca modifichino gli attuali progetti bellici. Ufficialmente, ripetono le cancellerie occidentali, si interverrà solo per fermare lo Stato Islamico, arroccato a Sirte e Derna, ma capace di infiltrarsi lungo tutta la costa. 5-6mila uomini che approfittano del caos libico per ampliarsi: se queste fossero effettivamente le forze militari islamiste, non sembrerebbero una minaccia insormontabile. Il problema è un altro: in Libia non c’è un governo legittimo da sostenere contro il nemico islamista, ma una galassia di autorità diverse che frammentano il paese.
Un intervento esterno, con o senza richiesta di un eventuale esecutivo di unità, non avrebbe un effetto stabilizzatore ma amplierebbe questi settarismi. In tale contesto lo Stato Islamico è consapevole di aver raggiunto l’obiettivo: l’arrivo continuo di nuovi adepti – che diminuiscono in Siria ma aumentano in Libia –garantisce l’allargamento di una struttura che ha come scopo la destabilizzazione della Libia.
Lo ha detto chiaramente il nuovo “emiro” dell’Isis nel paese, Abdul Qadr al-Najdi, alla rivista di Daesh al-Naba: l’organizzazione «diventa più forte, giorno per giorno» tanto da fare dello Stato nordafricano «l’avanguardia del califfato», ha detto prima di minacciare Roma di una prossima conquista e i paesi vicini (in primis la Tunisia) di future operazioni.
Intanto proprio a Tunisi ieri si apriva l’ennesimo tavolo Onu per ridare vitalità al morente dialogo nazionale. Gli incontri saranno gestiti dall’inviato per la Libia Kobler, nell’obiettivo di superare lo stallo dovuto al parlamento di Tobruk. Da settimane il governo ufficialmente riconosciuto dall’Occidente si rifiuta di votare la proposta di governo unitario promossa dal premier designato al-Sarraj.
La giustificazione ufficiale è la continua mancanza del quorum, ma l’assenza dei parlamentari è da imputare al diktat del capo dell’esercito, Khalifa Haftar, che punta – su spinta del suo stretto alleato, l’Egitto – a ricoprire una carica di prim’ordine. Una carica che gli permetta di controllare il futuro del paese.
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