Cultura

Nuvole avverse e il clima nelle nostre stanze

Nuvole avverse e il clima nelle nostre stanzePae White, «Kinked Rain / Gold», 2022, courtesy of the artist and Kaufmann Repetto Milan / New York

MOSTRE Fono al 26 novembre alla Fondazione Prada, nella sua sede veneziana, «Everybody Talks About The Weather»

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 7 ottobre 2023

La mostra Everybody Talks About The Weather allestita alla Fondazione Prada nella sua sede veneziana (fino al 26 novembre) ha la stessa impostazione del «progetto sperimentale» di Human Brains che l’ha preceduta lo scorso anno. Come il cervello umano anche il clima svolge funzioni vitali per la nostra esistenza sulla Terra, tuttavia, se per il nostro organo colpito da malattie degenerative, la ricerca scientifica avanza per individuarne le cause, nel caso della crisi climatica queste sono già tutte appurate e producono il surriscaldamento globale risultato del nostro modello di sviluppo neoliberista: difficile negarlo, anche se si divaga troppo per agire.

SE È EVIDENTE che «Tutti parlano del tempo», altrettanto certo è che «l’immensità di questa crisi – come afferma Dieter Roelstraete, curatore della mostra – è soverchiante per le povere forze dell’immaginazione umana», quelle nello specifico del mondo dell’arte che in modo analogo per la letteratura svelano la loro «grande cecità». Per primo lo denunciò Amitav Ghosh con il suo saggio, La grande cecità (Neri Pozza, 2017), al quale il curatore belga s’ispira preferendo rinominarla del «grande mutismo».

Nella convinzione, quindi, che «la crisi climatica deve ancora generare il primo corpus di capolavori riconosciuti dalla critica», si è voluto incalzare il confronto lasciando la libertà a ogni artista e studioso invitato di riflettere tra tempo atmosferico e clima. Due concetti che pur avendo un differente «peso emozionale» (Lucia Pietroiusti), sono «fortemente correlati tra loro sia al tempo sia allo spazio» (Giuliana Bruno), e in ogni caso sanciscono che il «cambiamento climatico muta ogni cosa, perché il clima è il tessuto su cui ricamiamo le nostre vite» (Gaia Vince).

MESSA DA PARTE LA MOLE di libri e documenti che dall’ingresso di Ca’ Corner della Regina arriva fino al piano nobile per distendersi su un tavolo dalla superficie a zig-zag, dando così fisicamente la misura di quanto fino ad oggi sia stato scritto sull’argomento; superata, poi, la riproduzione di una serie di dipinti antichi dove appaiono differenti fenomeni atmosferici (Giorgione, Bruegel, Friedrich), all’interno delle stanze le opere esposte sembrano proprio confermare la tesi del curatore belga che il cambiamento climatico «continua a gettare un’ombra troppo esigua sul paesaggio delle arti visive rispetto a quanto sarebbe ragionevole aspettarsi». Per alcuni di loro il soggetto, come lo fu per Constable, Turner o Monet, è ancora il cielo nuvoloso intriso, però, d’inquietanti interrogativi: in Chantal Peñalosa la mobilità delle nuvole rinvia al miraggio di superare il confine tra il Messico e gli Usa, per Iñigo Manglano-Ovalle sono forse masse contaminate di radiazioni poiché fotografate nell’area degli esperimenti nucleari di Trinity (New Messico).

Alzare gli occhi al cielo o sull’orizzonte può significare accorgersi di un tornado, come nelle «immagini virali», raccolte in rete da Thomas Ruff, o dei danni causati da eventi meteorologici estremi come nel video delle coste del Bangladesh di Ursula Biemann.

DI ALTRO SEGNO sono quella serie di pratiche artistiche che richiedono l’intervento di fattori naturali esterni perché si emulsionino tessuti, come fanno Fredrik Værslev, Ayan Farah o Vivian Suter, quest’ultima presente con i suoi dipinti esposti all’aperto appesi come fosse un bucato, oppure che si pigmentino dei fogli di carta con la pioggia, come fa Jitish Kallat, per poi intervenire con combustioni controllate ma decise dal vento. Non manca l’incontro con sculture e installazioni. A pavimento sono disposte una sopra l’altra le sfere parafulmine di Nina Canell o le coperte di Jason Dodge, tessute da artigiani sparsi nel mondo, con un filo della lunghezza che ci separa dalla zona dove accadono i fenomeni atmosferici (troposfera), invece al soffitto è collocato il ventilatore costruito in legno di balsa di Nick Raffel: critica all’uso dell’aria condizionata e invito di «fare entrare il clima» nelle nostre case come scrive Barbara Calder, dichiarando la sua avversione al «comfort sintetico» dell’architettura, per la stagionalità del clima come la moda insegna.

D’altronde è «l’architettura uno dei motori di questa crisi planetaria», come dice Ghosh intervistato da Roelstraete. Segni dell’attivismo per la decarbonizzazione e la decolonizzazione (temi della Mostra dell’Architettura di Lesley Lokko di quest’anno) li troviamo nel saggio di Giovanni Aloi, mentre Cristina Baldacci ci avverte come per salvare Venezia la tecnologia stia compromettendo l’ecosistema lagunare.
Come scrisse Margaret Atwood, e ricorda Ghosh, il cambiamento del clima «è il cambiamento di tutto».

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