Nuovo senato in frenata
Riforme L’ingorgo dei decreti e i 7500 emendamenti rallentano la corsa delle leggi costituzionali. La Lega (quasi) si sfila. Salvini: referendum europei o niente voti. E da sinistra a destra, la fronda non molla. L’approvazione slitta, per ora a fine luglio. Lungo applauso in aula per il ’dissidente’ Pd Chiti: «Io, uomo di partito voterò secondo coscienza»
Riforme L’ingorgo dei decreti e i 7500 emendamenti rallentano la corsa delle leggi costituzionali. La Lega (quasi) si sfila. Salvini: referendum europei o niente voti. E da sinistra a destra, la fronda non molla. L’approvazione slitta, per ora a fine luglio. Lungo applauso in aula per il ’dissidente’ Pd Chiti: «Io, uomo di partito voterò secondo coscienza»
Per la riforma di Renzi la strada è in salita, e fitta di insidie. Prima di tutto sui tempi. La discussione generale va a rilento, e domani l’aula è già impegnata per la riunione della Conferenza delle commissioni specializzate Ue. Inevitabile il rinvio alla settimana prossima. Nella quale però palazzo Madama dovrà per forza sgombrare la strada dall’ingorgo dei decreti in scadenza.
Ufficialmente l’agenda è ancora invariata, ma oggi alle 13.30 la conferenza dei capigruppo non potrà che fissarne una nuova, spostando le riforme, nella migliore delle ipotesi, a fine settimana.
A quel punto bisognerà fare i conti con i circa 7500 emendamenti presentati. Il M5S, a riprova della confusione in cui versa attendendo il fatidico incontro in streaming di oggi, ne ha messi insieme solo 200, ma Sel, impegnata in una vera opposizione frontale, ne ha messi insieme 5933. Più quelli degli altri gruppi. Certo, alcuni saranno giudicati inammissibili, per altri scatteranno tutte le possibili misure di contingentamento dei tempi. Ma per smaltirli tutti ci vorranno comunque decine di ore di dibattito. L’eventualità di sforare il confine del 31 luglio è concretissima.
E questo è ancora il meno. Il peggio è che alcuni di quegli emendamenti potrebbero passare, dal momento che le file dei contrari alla riforma invece di assottigliarsi si gonfiano.
La brutta notizia di ieri, per il governo, è che la Lega è a un millimetro dallo sfilarsi dal sì alla riforma. Che gli umori nel Carroccio non fossero dei migliori lo si era capito da subito dal primo intervento del co-relatore Roberto Calderoli, tanto farcito di critiche da sembrare fatto apposta per prepararsi allo sganciamento. Poi, in aula, dai leghisti sono cominciati a piovere attacchi sempre più micidiali. Fino a che ieri pomeriggio il segretario Salvini ha rotto gli indugi: «Visto che si cambia la Costituzione si inserisca la possibilità di fare dei referendum sui temi europei. E chiediamo che si possano fare anche propositivi. Senza queste scelte la Lega non voterà la riforma».
È evidente che Salvini, incamerata la retromarcia del governo sul Titolo V, non ha alcuna intenzione di condannarsi a fare da ruotina di scorta della coppia del Nazareno, come un Alfano qualsiasi.
Se da un lato aumentano i gruppi parlamentari contrari alla riforma, dall’altro non rientrano le ribellioni dei dissidenti in quelli favorevoli. I 16 senatori del Pd che da mesi bersagliano di critiche il progetto di Renzi non arretrano. Ieri hanno ripetuto i loro argomenti in aula. Applauditissima la requisitoria di Vannino Chiti che, prima di chiamare in causa addirittura Jurgen Habermas, ha preso di mira l’ipotesi di uno “scambio” all’interno del Pd tra l’allargamento dei vertici e la resa sulle riforme: «Le modifiche della Costituzione non sono scambiabili con niente. La Carta è dei cittadini. Non dei governi o dei parlamentari in carica. Sono un uomo di partito, ma ognuno di noi deve rispondere alle proprie convinzioni e alla propria coscienza, almeno sui temi che riguardano la Costituzione». Di marcia indietro non se ne parla.
In Forza Italia le cose vanno anche peggio. Ieri sera gli scomunicati da Silvio il Furioso si sono visti a cena per fare il punto sulla difficilissima situazione. Prima ancora Saverio Romano, uno dei dissidenti di maggior peso, aveva parlato a lungo con Verdini, sentendosi ripetere che Berlusconi non ha messo sul tavolo la riforma ma una questione di fiducia. Quella fiducia nessuno gliela negherà, specialmente alle soglie di una sentenza che potrebbe rivelarsi fatale: anche per questo la ventilata assemblea autoconvocata è stata derubricata a cena quasi carbonara. Ma, con tutta la fiducia del caso, una ventina o quasi di senatori rimarrà sulle proprie posizioni. In aula Augusto Minzolini, ieri, ha messo i suoi 35 anni di giornalismo politico dei quali si era (giustamente) vantato con Berlusconi al servizio della propria tesi: «Renzi vuole avere la riforma del Senato e l’Italicum in tempo per portarci al voto la prossima primavera. Per questo vuole riformare la Carta con tempi e modi da assemblea condominiale». Le truppe di Fitto e Cosentino, i pugliesi e i campani, non hanno alcuna intenzione di demordere. E persino Scilipoti annuncia una scelta sofferta come quella del 2010.
Il fatto è che la riunione dei gruppi di mercoledì con Berlusconi non è un incidente di percorso. È un trauma. Quel Berlusconi terreo e furibondo che legge un discorso scritto da Verdini e poi esplode in fragorose minacce e ancor più deflagranti “vaffanculo” rivolti ai suoi. Quello scambio di accuse, con Daniele Capezzone che chiama in causa nientemeno che la cacciata del manifesto («Non puoi comportarti come il Pci di allora») e D’Anna che rievoca la resa dei conti con Fini rivelano che il partito azzurro a un passo dall’esplosione. Un’esplosione che si ripercuoterebbe prima di tutto sulle riforme di Renzi.
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