Nuove fonti per capire la crociata pacifista di Federico II
Duomo di Bitonto (Bari), prima metà XIII sec.,, particolare dell’ambone con la lastra che rappresenterebbe Federico II nella successione dei sovrani svevi
Alias Domenica

Nuove fonti per capire la crociata pacifista di Federico II

Storia medievale L’imperatore svevo, scomunicato, riacquistò la Terra Santa con armi diplomatiche: Fulvio Delle Donne svela le crepe della ricostruzione vulgata (datazione e dati), Carocci
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 luglio 2022

«L’imperatore preparò la sua traversata di nascosto e il primo di maggio, all’alba, senza farlo sapere a nessuno decise di salire su una galea davanti alla Beccheria. Accadde allora che i beccai e le fastidiose vecchie di quella strada lo accompagnarono lungo il percorso e lo bersagliarono con trippe e altre frattaglie in modo vergognoso (…) Così l’imperatore se ne andò da Acri (oggi in Israele) odiato, esecrato e svillaneggiato».

Chi è il sovrano la cui partenza viene salutata a lanci di trippa? Era lo stupor mundi, Federico II di Svevia, appena presentatosi in pubblico con la corona di re (in realtà: reggente) di Gerusalemme, reduce dall’accordo con cui nel 1228 aveva ottenuto senza alcuno spargimento di sangue, se non fra truppe occidentali di diverse fazioni, la riapertura di Gerusalemme dopo decenni di occupazione musulmana.

Lo racconta Filippo di Novara, cronista di parte avversa e dunque interessato a denigrare la figura imperiale, ma pare difficile che l’aneddoto sia del tutto inventato, perché la fama di ambiguità del personaggio verso quello che doveva essere il «proprio» campo (quello cristiano) è confermata dalle fonti arabe, come ibn Wasil e Sibt ibn al-Giawzi, che raccontano episodi significativi nei quali Federico aveva mostrato il massimo rispetto delle autorità, dei luoghi e della religiosità islamiche, rivelandosi invece severissimo nei confronti dei sacerdoti cristiani che ne intaccavano la purezza con la loro presenza.

Il lancio di trippe esprime con colori accesi e popolareschi il sentimento di ostilità che parte della nobiltà laica (come l’ex suocero di Federico Giovanni di Brienne, che in quel momento minacciava i territori imperiali in Sud-Italia) ed ecclesiastica (il patriarca di Gerusalemme, i Templari e gli Ospitalieri non coinvolti nelle trattative) nutriva per l’accordo che il puer Apuliae aveva stretto con il sultano d’Egitto al-Kamil e poi col suo inviato Fakhr al-Din per la liberazione di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, lasciando però ai musulmani (disarmati) i diritti giuridici e religiosi e la custodia della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, sacri all’Islam (e all’Ebraismo) ma sede dei templari in quanto sito dell’antico Tempio di Salomone. Da una parte i detrattori erano delusi per la mancata restituzione dei beni che avevano perso, dall’altra non potevano accettare che quel pur parziale successo, che riapriva la città santa ai pellegrini cristiani, fosse stato conseguito da uno scomunicato.

Tale era infatti Federico dal 1227, a seguito degli effetti automatici del patto (che prevedeva l’organizzazione di una crociata) da lui stipulato col papato nel 1225 dopo lunghe trattative e non rispettato nei tempi previsti. Anche da scomunicato, però, Federico dopo moltissimi rinvii e tentennamenti era riuscito a partire, fermandosi a Cipro per regolare i conti con la famiglia degli Ibelin, e concludendo con l’emiro Fakhr al-Din una tregua decennale con la cessione dei principali luoghi sacri.

La storiografia moderna, esaltando come conquista di alto valore etico quella che fu probabilmente una soluzione al ribasso, celebra questa impresa come un esempio di crociata diplomatica, mettendolo in parallelo con il tentativo, fallito, di conversione del sultano messo in campo da san Francesco pochi anni prima. Lo conferma ora questo Federico II e la crociata della pace pubblicato per la collana «Quality Paperbacks» di Carocci (pp. 157, euro 15,00) dal medievista Fulvio Delle Donne, reduce da un periodo di impressionante operosità che ha generato fra l’altro il volume Il Regno di Sicilia in età normanna e sveva. Forme e organizzazioni della cultura e della politica, curato da lui con Pietro Colletta e Teofilo de Angelis (Basilicata University Press 2021), insieme a nuove edizioni del panegirista di Federico, Pietro da Eboli (De rebus siculis, BUP 2020) e a un’infinità di lavori sia filologici sia storiografici che lo confermano come uno dei massimi esperti dell’epoca sveva.

Le vicende di Federico in effetti sono state raccontate molte volte, da Kantorowicz a Houben a Runciman a Stürner a Gouguenheim, Abulafia e tanti altri, ma questo lavoro ha il pregio di concentrarsi sulla «crociata» in sé, con i suoi preparativi e le sue conseguenze, seguendola passo passo sulla scorta delle fonti coeve, citate (in originale nelle note, in traduzione nel testo) e contestualizzate in modo da evidenziarne gli interessi e le deformazioni: di parte imperiale Riccardo di San Germano, il Breve chronicon de rebus siculis e Pietro da Eboli, di parte «nobiliare» Federico da Novara, più attente al rapporto con l’Islam quelle arabe, cui si aggiungono i corpora epistolari e giuridici di parte imperiale e papale.

Per rappresentare il sentimento delle popolazioni o delle corti vengono usate, secondo antica tradizione, anche fonti poetiche come estratti di canzoni di trovatori provenzali o germanici, insieme a narrazioni vernacolari come L’estoire de Eracles empereur o la cronaca di Giovanni Villani (ma qui il campo si estenderebbe includendo decine di testi il cui affollamento avrebbe paralizzato la narrazione).

Grazie alla marcatura stretta delle fonti anche nelle loro pieghe più tecniche (il calendario liturgico o la scansione delle rotte marine) e perfino nelle varianti dei loro manoscritti, Delle Donne riesce a mostrare filologicamente le molte crepe nella ricostruzione vulgata delle date e la difficoltà quasi insormontabile che si incontra nell’appurare gli elementi fattuali di un racconto fin dall’inizio contaminato da orientamenti agiografici o demonizzanti. Ancora oggi, anzi oggi ancora di più, la figura di Federico è infatti avvolta in una mitizzazione metastorica che ne esalta il presunto razionalismo laico, la lucidità strategica della costruzione statuale, la lungimiranza politica della fondazione universitaria a Napoli, l’apertura multiculturale della corte arabo-greco-latina (e italiana, come dimostrerebbe la poesia che inaugura la nostra tradizione letteraria), fino a santificare l’appellativo di stupor mundi che nel cronista Matthew Paris aveva invece valenza neutra, se non negativa (‘sorpresa del mondo’, ‘innovatore stupefacente’): tutte costruzioni idealizzanti, che offuscano la realtà storica di un personaggio comunque eccezionale e oggi vengono messe impietosamente in dubbio dalla illuminazione delle sue ambiguità, delle sue crudeltà, delle sue infedeltà, delle sue incertezze, oltre che dal rapido tramonto della sua glorificazione già pochi anni dopo la sua morte, come documentano gli studi de Il Regno di Sicilia, e in particolare il contributo di Pietro Colletta.

Unica via d’uscita in questi casi è l’emersione di nuove fonti che possano far trapelare dettagli utili a gettare luce nuova su quanto si credeva di conoscere. A tale scopo soccorre l’Itinerario di Federico II, un poema latino di anonimo pugliese riscoperto e pubblicato solo pochi anni fa (1998) proprio da Delle Donne e che racconta, anzi canta le tappe della reconquista del Suditalia realizzata da Federico al suo rientro dalla «crociata» contro le truppe di Giovanni di Brienne che col sostegno pontificio l’avevano occupata durante la sua assenza.

I versi che se ne riportano sono strettamente collegati ai «blasoni popolari», i motti incisi su lapidi, mura e porte delle singole città che l’esercito imperiale (cui l’Itinerarium attribuisce un nucleo di ventimila saraceni) riconquistava una dopo l’altra nel 1229, nonostante lo sconcerto gettato dalla fake news sulla morte dell’imperatore, e che si fregiano tuttora di una identità federiciana.

Le pagine sui passi poetici che stigmatizzano, scherniscono o elogiano Bari, Barletta, Taranto, Troia (con la sua offerta irridente di cibi poveri all’esercito degli assedianti) sono fra le più gustose di un libro in altri passi molto tecnico e analitico, il cui intento è anche quello di provare a spiegare «a cosa serve la storia», come chiede il bambino a Marc Bloch: e lo fa documentando l’esempio di un accordo pacifico (anche se di fatto si tratta di una tregua fra potenze militari per pura convergenza di interessi) fra «Oriente» e «Occidente» in conflitto fra loro, in un momento, come quello attuale, che pretestuosamente ha riaperto le ferite di una contrapposizione violenta tra frange dell’Islam e il mondo da esse etichettato come cristiano, pur nella consapevolezza che «le reinterpretazioni o le citazioni che riportano alla memoria accadimenti lontani, quando sono decontestualizzate risultano dannose tanto quanto i ‘vuoti di memoria’».

Finita la tregua federiciana un esercito di «crociati» francesi ripartì verso la Terra Santa, per subire una sconfitta disastrosa ad Ascalona e pochi anni dopo, nel 1244, Gerusalemme cadde conquistata dai turchi corasmi. Federico, deposto dalla carica imperiale nel concilio di Lione da Innocenzo IV nel 1245 e sconfitto nel 1248 dall’esercito dei Comuni (e del papa), morì da perdente nel 1250. L’ingresso a Gerusalemme da trionfatore rispettoso più dei presunti nemici che dei propri alleati era già uscito dalla memoria dei contemporanei.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento