Cultura

Nuove declinazioni dell’intollerabile

Nuove declinazioni dell’intollerabilePerformance e installazione di Ultima Generazione sulla parete adiacente all’opera di Guido Reni esposta alla Pinacoteca di Bologna – LaPresse

L'anticipazione Il progetto «Lo stato dell’arte» (promosso da Palazzo Grassi, e curato da Barbara Carnevali, Directrice d’études in Filosofia presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales), dopo Rachel Cusk con «Controfigura» prosegue con Judith Butler che oggi alle 18 sarà a Venezia, al Teatrino di Palazzo Grassi, per raccontare in anteprima il suo contributo in distribuzione per le edizioni Marsilio Arte. L’estratto che qui pubblichiamo fa parte del volume di Judith Butler, «Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica» edito da Marsilio Arte (pp. 80, euro 14, traduzione di Isabella Pasqualetto, Collana «Lo stato dell’arte»), in uscita il 12 maggio

Pubblicato più di un anno faEdizione del 10 maggio 2023

Che mondo creiamo mettendo a rischio le opere d’arte, e come può aiutarci l’arte a creare un mondo in grado di contrastare le enormi forze di distruzione? Credo che la soluzione a questo problema stia nel chiamare a raccolta le arti – sia dentro che fuori dai musei, sia di persona che online – per far fronte al negazionismo dilagante e cominciare a immaginare modi per salvare il pianeta. Concordo con la filosofa Anna Longo, che di recente ha scritto: «Nei tempi in cui viviamo (…) l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola, impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti: non creatori di nuove maschere per i valori che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».

Di seguito una serie di punti. Primo, lo spettacolo pseudo-situazionista del danneggiamento di opere d’arte dipende dalla capacità dei musei di proteggere l’arte. Pertanto gli attivisti vedono, e promuovono, il museo come un luogo dove l’arte viene tutelata. La loro sarà anche una critica al mercato, ma almeno implicitamente è un plauso ai musei, e costituisce una – pur obsoleta – pratica estetica. Secondo, ci sono buone ragioni per criticare l’elitismo dei musei, perciò più il museo viene integrato nello spazio pubblico, meglio è. Anzi, rendere gratuito l’ingresso ai musei, portare la danza, i film, l’improvvisazione all’interno degli spazi museali, comprese le soglie inutilizzate, le fondamenta e i tetti, va sempre bene, a mio parere. Il museo, se è veramente aperto, può ampliare la sfera pubblica e persino evitarne il completo collasso nel digitale.

TERZO, è giusto sostenere che il mercato distorce il valore dell’arte, e che è quasi impossibile avere esperienza di un’opera al di fuori della cornice del mercato. La mercificazione influenza il nostro modo di vedere, sentire, avere esperienza delle opere d’arte e di installazioni e spettacoli in generale, e talvolta lo impedisce tout court. Resta ancora da capire se il valore di mercato esaurisca completamente il valore di un oggetto. E comunque, un conto è dire che il valore di mercato non esaurisce il valore di un oggetto in tutte le sue accezioni, un altro è concludere che il valore della vita è superiore a quello dell’arte. Saltare a una conclusione così affrettata significa dare per scontato che il valore dell’arte non abbia nulla a che vedere con il valore della vita: al contrario, tra arte e vita possono esserci connessioni profonde, e l’arte – di qualunque tipo, compresi i documentari e la sperimentazione digitale – può aiutarci a immaginare e a concepire una catastrofe climatica di cui, quando non la neghiamo del tutto, troviamo intollerabile il pensiero. Se l’arte è un modo per rendere pensabile l’intollerabile e l’impensabile, allora l’oggetto artistico – oggetto in senso winnicottiano – diventa un’occasione di contemplazione che ci induce a comprendere il legame reciproco tra mondo oggettuale e vita organica, un’interdipendenza simile a quella dei processi vitali nelle biosfere terrestri. Winnicott sosteneva che lo spazio, il tempo, l’oggetto affidabile e ricettivo consentono di sopportare e riflettere su passioni altrimenti intollerabili.

La maggior parte dei suoi esempi comincia con il desiderio di distruggere, un desiderio che risulta intollerabile anche perché, se rivolto alla madre o alla figura di accudimento, il bambino o giovane rischia di distruggere l’Altro da cui dipende la sua vita. Dovrà quindi imparare che il suo desiderio di distruggere in realtà non ha il potere di distruggere. Perdendo tale presunzione di onnipotenza, il bambino riconosce la capacità di sopravvivenza dell’Altro, la sua durevolezza. Naturalmente i gruppi di persone, specie se numerosi, sono diversi dai bambini, eppure non riusciamo a superare la dipendenza dalle vite altrui, né ad ammetterne la profondità. Se l’oggetto legittima la possibilità di provare sentimenti intollerabili – compreso l’odio assassino, il dolore irreparabile –, è perché consente la riorganizzazione del materiale psichico.

NEL CASO della psicoanalisi, l’oggetto terapeutico – vale a dire il terapeuta – acconsente a farsi prendere a pugni dal paziente, fino a esserne «mutilato», per dirla con Christopher Bollas. Il consenso a diventare destinatario di rabbia e dolore, persino a essere temporaneamente «mutilato» dal paziente, rientra nel contratto psicoterapeutico. Il paziente riesce a sopportare i sentimenti senza paura che si trasformino in azioni, che provare rabbia o odio corrisponda a commettere un omicidio, o che il dolore logori le persone fino ad assimilarle, nella perdita, a chi hanno perduto. Facendo emergere tale distinzione, l’oggetto rende tollerabili i pensieri di distruzione, desiderio, dolore o invidia: se l’espressione di questi sentimenti è tale da poterla osservare e rifletterci, allora le si può sopravvivere e, idealmente, dare inizio al processo di elaborazione dell’intollerabile.

La catastrofe climatica rappresenta una nuova declinazione dell’intollerabile, ed è per questo che abbiamo bisogno dell’arte, ora più che mai. Stephanie LeMenager, docente di Letteratura e Studi ambientali, scrive del lutto preventivo tipico della cultura del petrolio che definisce la nostra modernità, l’angosciante previsione della perdita del mondo che conosciamo, un mondo che annienta il proprio futuro. In un modo o nell’altro, questo mondo è destinato a scomparire a causa del cambiamento climatico, e noi ne piangiamo la perdita, perché insieme al mondo perdiamo anche i ricordi lì incarnati e, per certi versi, tutte le nostre vite. L’industria petrolifera e i combustibili fossili coincidono ormai con il nostro senso del mondo e al contempo ne costituiscono la fonte di distruzione: vivere in un mondo simile, trarne beneficio rappresenta una distruzione che non riusciamo né a vedere né ad arrestare senza prima elaborarne il lutto – cosa che molti reputano impossibile, perché ormai le nostre vite sono diventate inimmaginabili senza il petrolio.

SECONDO LEMENAGER e Catriona Sandilands, «la melanconia ambientale non è che un meccanismo di negoziazione della perdita e della responsabilità ambientale». Prevediamo la perdita del mondo che conosciamo, la distruzione della terra, ma non possiamo ancora elaborarne il lutto. Come sostiene Sandilands, «l’oggetto della perdita è “indegno di lutto” all’interno di una società incapace di riconoscere gli esseri non umani, gli ambienti naturali e i processi ambientali come oggetti degni di un lutto sincero». Non ci limitiamo a prevedere un lutto che subiremo in futuro, ammesso che vivremo abbastanza da assistere alla completa distruzione del clima e del pianeta: probabilmente non ci saremo già più, perciò viviamo con la prospettiva di quel giorno, o manciata di giorni, la svolta finale e irreversibile. Il vero problema è che continueremo a perdere il pianeta giorno dopo giorno, se non ci rassegniamo a dire addio alla nostra dipendenza dal petrolio.

È UNA PERDITA CONTINUA, perché siamo nel pieno della catastrofe climatica, costretti a ripensare il significato dell’elaborazione del lutto a fronte di una perdita ancora incompiuta, che, per definizione, non avrà testimoni del suo compimento. L’arte può dare una scossa solo se dimostra e documenta la normalizzazione della distruzione. La normalizzazione del consumo e della produzione di petrolio è un processo di distruzione, e come tale andrebbe presentata. Abbiamo bisogno di forme d’arte che lottino per la vita nel mezzo della distruzione, e al contempo smascherino gli stratagemmi attraverso i quali la rovina si spaccia per progresso o, peggio ancora, per normalità.

La teorica ambientale Heather Davis ha coniato la perfetta definizione di «archivio performativo di presente». «Una testimonianza», scrive Davis, «che documenta non la condizione delle cose perdute, ma il lutto preventivo e il sentimento perturbante di un mondo ormai scomparso». E, aggiungerei, la scomparsa del mondo si verifica proprio mentre cerchiamo di capire come elaborare il lutto quando la perdita è ancora in corso, come resistere alla perdita nel bel mezzo del lutto.

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