«Musicalmente il 2023 è stato definito dal ritorno delle principali pop star femminili», proclama Spotify presentando le classifiche dell’anno appena trascorso. Peccato che i dati dicano tutt’altro, specie per il nostro paese. Certo, a livello globale quella di Taylor Swift appare una monarchia assoluta, ma alle sue spalle la lunga schiera di interpreti maschili è interrotta solo da SZA, Karol G, Lana Del Rey (dall’ottava alla decima posizione) e altre sette artiste in Top 50, per un 22% del totale.
Peggio ci sentiamo, in Italia. La prima donna in classifica, Anna, è solo quattordicesima, seguita da appena cinque colleghe entro le prime 50 posizioni (un magro 12%). Tanto per fare un raffronto, le charts di 25 anni fa dominate da Cher contavano sei donne nella decina di testa e diciotto in Top Ten (36%, giusto tre volte tanto). Ma non doveva essere l’anno di Annalisa e Elodie? È vero che Spotify non è tutto, ma resta un certo scollamento percettivo. A meno di non leggere i dati in un’altra ottica, rivolgendo l’attenzione al modo in cui vengono scorporati. Se le playlist Equal della piattaforma streaming erano nate con la lodevole intenzione di «dare visibilità alle creatrici», le classifiche «Artiste donna più ascoltate in Italia» riportate su varie riviste di settore non fanno che reiterare un pernicioso cortocircuito tra generi sessuali e musicali, magari inconscio al livello della fruizione ma non certo a quello della produzione. Come sostiene il report Women in Music Industry condotto da Sae nel 2021, è infatti abitudine consolidata di molte etichette discografiche puntare su una singola artista femminile per rivolgersi a un target ben preciso. Ciò crea molta più competizione rispetto al comparto maschile, erigendo barriere all’ingresso che condizionano il mercato e le pari opportunità. I dati «ottimistici» vanno letti in un’altra ottica, rivolgendo l’attenzione al modo in cui vengono scorporati

Lana Del Rey, foto Ansa

È QUANTO conferma lo studio presentato da Equaly durante la recente Milano Music Week, ulteriore indagine sulle discriminazioni interne all’industria musicale e sulle percentuali di rappresentanza femminile: 21,6% tra le cantanti, 12,6% tra le autrici, 2,6% tra le produttrici. Dati che pur desunti dalle classifiche recenti fotografano una realtà endemica: quelli personalmente elaborati da chi scrive per un progetto di ricerca sulla discografia italiana dal 1965 al 1999, curiosamente, riportano percentuali pressoché identiche (19,9% per le interpreti e 2,3% per le produttrici, solo per citare due delle suddette categorie). Ma non è che la punta di un iceberg sotto cui si agita un sommerso ben poco strutturato e ancor meno regolamentato, con lotte di classe e di genere ancora sabotate dal mancato riconoscimento professionale, tipico del settore («Sì, ma di lavoro, cosa fai?»).È abitudine consolidata di molte etichette puntare su una singola artista per rivolgersi a un target ben preciso. Ciò crea molta più competizione rispetto al comparto maschile

LIQUIDARE la questione pensando che in fondo la musica è specchio della società serve solo a misconoscere le sue responsabilità nella costruzione dei modelli culturali alla base di tali discriminazioni. Non è solo il cliché della cantante di bella presenza, la cui vocalità non può essere eguagliata dagli interpreti maschili (fortunatamente i tempi di Farinelli sono lontani); ma si pensi alla terminologia, alle relazioni professionali figlie di reti sociali anch’esse sostanzialmente maschili, allo stesso linguaggio musicale e letterario che perpetua l’idea di una popular music come rito essenzialmente mascolino.
Un rito che, in quanto tale, tende a replicarsi. Nel 1997 Sara Cohen osservava come il rock — in particolare la scena metal — riflettesse un’immagine del potere maschile «offrendo un mezzo musicale attraverso il quale gli uomini possano dimostrare la loro virilità» e il loro controllo sull’altro sesso; Sheila Whiteley, in seguito, avrebbe ravvisato nel mondo dei dj «una crescente sofisticazione tecnologica accompagnata da un’altra storia di emarginazione».

Elodie, foto Ansa

FIN TROPPO facile, oggi, rintracciare queste storie di emarginazione nella trap, correlando la misoginia dei testi all’esiguo numero di interpreti femminili, in una spirale che finisce per generare forme di esclusione anche da parte del pubblico: finché il taste-making resta monopolio maschile, ascoltatori e algoritmi non potranno che ribadirne le scelte.
Come uscire dal paradigma della quota rosa e dalla categorizzazione sessuale degli artisti a discapito della loro opera? La tentazione è sempre quella di confidare nell’educazione, specie quando un’ultima percentuale ci dice che nei licei musicali le donne sono in leggera prevalenza: è lì che potrà formarsi una generazione più attenta, capace di declinare queste riflessioni non solo al femminile e di spingersi oltre i confini dei generi, non solo musicali? È un processo che merita trattazioni ben più ampie e organiche; ma è chiaro che quel «cemento sociale» di cui parlava Adorno in relazione alla popular music, ormai ottant’anni fa, non era certo a presa rapida.