Il numero 10 nel rugby ha molte analogie con quello del calcio. Gode infatti di ampia facoltà creativa: può, anzi deve inventare. Ma a differenza del numero 10 calcistico, non può essere un solista, perché nel mondo ovale i solisti non godono di buona reputazione. L’aggettivo «atipico» mal si addice a chi ha scelto di giocare a rugby. Se nel calcio il dieci può essere una figura indefinita (mezzala di punta, fantasista, mezza punta, né punta né centrocampista), in quest’altra dimensione i suoi compiti sono certi e ben definiti: qui, chi porta quel numero sulla maglia è il mediano di apertura. Per gli inglesi fly-half ma non per i neozelandesi i quali, per ragioni un po’ complicate da spiegare, danno a quel ruolo il nome, quasi intraducibile, di first five eight, mentre il primo centro è denominato second five eight. Bizzarrie ovoidali.

Dunque il numero 10 è un creatore. Deve vedere gli spazi, avere il senso dei tempi, saper scegliere. Gli servono intelligenza, calma e sangue freddo ma anche velocità di esecuzione. È lui il regista della squadra, è lui ad avere in mano le chiavi del gioco. Dovrà essere dotato di mani buone, forti e sapienti, capaci di dosare il passaggio, ma al tempo stesso non dimenticherà di prendersi cura del suo piede. Gli sarà chiesto di calciare il pallone tra i pali ma anche di indirizzarlo, con un tocco leggero, nelle zone sguarnite oltre la difesa avversaria, rendendolo preda ambita. Se la situazione lo richiede saprà attaccare lo spazio palla in mano, accettandone i rischi, e sempre e comunque dovrà difendere e placcare. Avrà un fisico se non normale certamente non esagerato, non troppo alto né troppo basso: dal punto di vista atletico il buon numero 10 rasenta la perfezione per l’equilibrio delle forme.

Il numero 10 è spesso decisivo. È lui a fare punti dalla piazzola (se non ce n’è uno più bravo a calciare, a volte il mediano di mischia o l’estremo) ed è sempre lui che dà i ritmi e che individua le soluzioni tattiche. I libri di rugby sono pieni di grandi mediani di apertura divenuti leggende. Qualche nome: i sudafricani Bennie Osler e Naas Botha, i gallesi Barry John, Phil Bennett, Jonathan Davies, l’australiano Mark Ella, l’inglese Jonny Wilkinson, l’argentino Hugo Porta, il neozelandese Grant Fox. Buona parte delle imprese più importanti del rugby azzurro portano la firma di Diego Dominguez, del suo piede fatato e della sua intelligenza tattica: uscito di scena lui, l’Italia sta ancora cercando un sostituto all’altezza ed è passato un decennio.

E allora lunga vita al numero 10. Nel turbo-rugby di questi ultimi anni, in cui tutto è codificato e regolato e dove ai giocatori è imposto, in quella data situazione tattica, di fare esattamente «quella cosa» e non un’altra, il mediano di apertura è una delle poche variabili rimaste. Sceglie, decide, dispone. Con qualche guizzo in meno e con sempre maggior disciplina tattica, ma comunque indispensabile per le ragioni del gioco e per il piacere del pubblico.
L’evoluzione del rugby ne ha peraltro modificato gli spazi di libertà: i grandi funamboli, gli psichedelici improvvisatori alla Barry John sono una specie in via d’estinzione e gli allenatori privilegiano la solidità, l’ordine, l’affidabilità. Jonny Wilkinson, che permise all’Inghilterra di portarsi a casa il titolo mondiale nel 2003, è stato l’archetipo di questo modello di giocatore: millimetrico nel calcio al piede, presente in tutte le fasi di gioco. Il fly-half di «sostanza» è una costante del rugby inglese. E da anni il Galles, che pure fu fucina di estrosi creativi, propone mediani di apertura di grande concretezza ma scarsa fantasia. L’ultimo dei sopravvissuti alla grande normalizzazione è l’australiano Quade Cooper, ritenuto non a torto tanto imprevedibile da risultare ogni volta una rischiosa scommessa.
Gli All Blacks, dopo la parentesi e le «follie» del wizard Carlos Spencer – tanto divertente quanto sciagurato: un suo avventato passaggio costò nel 2003 l’eliminazione per mano australiana -, considerano il funambolo una specie da estirpare. Se lo possono permettere perché da dieci anni schierano il più forte mediano di apertura del mondo: Dan Carter, la perfezione assoluta. 33 anni, 106 presenze in nazionale, recordman con 1516 punti messi a segno. 1,78 di altezza per 96 chili. Molti infortuni ma anche tanta tenacia e tanta voglia di tornare ogni volta in campo. Imprescindibile nonostante le alternative: quando, nel 2011, si infortunò in pieno mondiale, l’intera Nuova Zelanda fu percorsa da un brivido di paura. In qualunque formazione ideale degli All Blacks di tutti i tempi al numero 10 c’è sempre e soltanto lui. Per i kiwis praticamente un dio. È alla sua quarta coppa del mondo, convocato perché è sempre e comunque il migliore, sintesi perfetta di creatività e solidità mentale. Una delizia. Dategli la palla che poi ci pensa lui.