Nuccio Ordine, se ciò che non ha un uso è da considerarsi «inutile» e «necessario»
È passato un mese da quando, lo scorso dieci giugno, è venuto a mancare nella sua Calabria Nuccio Ordine. Principe delle Asturie e membro di tutti gli istituti e accademie […]
È passato un mese da quando, lo scorso dieci giugno, è venuto a mancare nella sua Calabria Nuccio Ordine. Principe delle Asturie e membro di tutti gli istituti e accademie […]
È passato un mese da quando, lo scorso dieci giugno, è venuto a mancare nella sua Calabria Nuccio Ordine. Principe delle Asturie e membro di tutti gli istituti e accademie immaginabili (dall’Accademia Russa delle Scienze al comitato scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani), Ordine è stato presidente del Centro Internazionale di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani che ha voluto – e guidato – per anni a Cosenza. Ha insegnato e scritto ovunque dirigendo, tra le altre, la magnifica collana dei Classici della letteratura europea per i tipi di Bompiani. E proprio per quella collana andava recentemente orgoglioso (per via dell’ultima pubblicazione: Tutti i testi e romanzi di Kafka pubblicati in vita). Eppure, al di là degli impegni accademici, Nuccio Ordine ha saputo mostrare la limpidezza di una intelligenza politica sostenuta da un’invidiabile attitudine letteraria. Lo ha fatto nel 2013 scrivendo L’utilità dell’inutile. Un titolo eloquente, un libro necessario, uscito per Bompiani dieci anni fa e giunto alla ventunesima edizione. George Steiner lo definì «un piccolo capolavoro» e, del resto, è esattamente quel tipo di libro che va «incontro al bisogno di dare senso alla nostra cultura».
LA PAROLA INUTILE, cui fa riferimento Ordine, deve essere rilevata nell’accezione inglese, in quella lingua che, imposta, ricade inevitabilmente nel senso delle nostre azioni. «Useless»: senza possibilità di uso, dice il primo significato letterario. Ma davvero, si chiede Ordine, «ciò che non ha un uso» (diremmo meglio un uso immediato) è oggi da considerarsi «inutile»? E ancora, davvero possiamo ritenere inutile una poesia o un teorema? Socrate, in attesa della morte, si esercitava con il flauto e alla domanda (quella sì, inutile) «a cosa ti servirà?» rispondeva che quell’azione serviva «a sapere quest’aria prima di morire», come a dire che la conoscenza è ovunque ed è sempre utile, perché «ogni forma di elevazione presuppone l’inutile». D’altra parte, al di fuori di ogni meccanismo prettamente economico, l’essere umano che non ricerca un principio utilitaristico – da intendersi quindi nella sua accezione economica – è relegato ai margini della società.
Eppure quel mondo dell’utile dimentica «qualsiasi forma di solidarietà», qualsiasi «diritto ad avere diritti». È la licoressia dell’utilità che mostra la tragedia del tempo (che non ci fa imparare parole nuove). È il mondo «che si avvita su sé stesso», in cui il rigore rivolto al profitto ci autorizza ad affermare che la restituzione di un debito economico vale comunque più di un debito culturale. La scienza (questo inutile Dio moderno) ci ha abituati a superare qualsiasi vincolo naturale ma – dovremmo chiederci come un qualsiasi Riccardo III – se siamo davvero disposti a scambiare «il nostro regno per un cavallo».
SE CREDIAMO, al contrario, di poter riprendere in mano la nostra vita dobbiamo reintrodurre nel nostro mondo un po’ di quella forma straordinaria di inutilità. E se gli altri penseranno che «avremo solo perso tempo», risponderemo loro con un verso tirato a memoria e una vita più felice. «È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante» dice il principino di Saint-Exupéry. È l’errore (e – insieme – la capacità di attendere) che permette le forme della cultura che alcuni, parlando un po’ a caso, dicono essere classica. Tuttavia non c’è nulla di classico al mondo perché il sapere non è contrapposizione tra scienze umane e scientifiche ma pura curiositas. Del resto, chi fa muraglie e confini – ricordava Borges inquieto – è lo stesso che brucia libri, che chiama un verso inutile, una moneta utile. Allora, ci chiediamo, davvero non ci toccano la scomparsa delle biblioteche storiche e i furti ai Girolamini?
Rompiamo ora con quell’idea che distingue le scienze, ricordando, come Oppenheimer, che persino le grandi scoperte scientifiche considerate meno importanti «hanno inaspettatamente favorito applicazioni, rivelatesi fondamentali per l’umanità». Basterebbe, forse, ripensare il momento in cui è nata la società. Kakuzo Okakura scriveva che l’umanità s’era distinta dagli animali quando qualcuno colse un fiore di tè per regalarlo, cioè «quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile». È l’inutile la nostra prima forma di vita, è quanto il mondo della finanza ci chiede di abbandonare che ci permette di vivere. Siamo nati simili ad alberi, scegliendo di crescere «nelle tempeste di primavera senz’apprensione» e non soffrendo nell’attesa di ordinare un altro pacco.
DOVREMMO ALLORA ripensare la parola inutile distinguendo – semmai – «tra i due sensi della parola utile». Potremmo cominciare a farlo leggendo il libro di Nuccio Ordine, comprendendo la necessità di attesa che esige la politica, per dedicarci un po’ di più al mondo, a quel mondo in cui l’inutilità è davvero utile, qualcosa che – diceva Ionesco – ci permette di respirare «senza evadere dalla vita». «Dateci signori/ quel briciolo di umanità/ e noi lo baratteremo con la vostra moneta».
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