Nozze gay, storico sì anche in Nevada e Idaho
Diritti civili Il cosiddetto «matrimonio egualitario» ormai è legge in 35 stati. Ma manca il Sud. Come per gli afroamericani, sono soprattutto i tribunali a portare avanti le tutele costituzionali per tutte le minoranze
Diritti civili Il cosiddetto «matrimonio egualitario» ormai è legge in 35 stati. Ma manca il Sud. Come per gli afroamericani, sono soprattutto i tribunali a portare avanti le tutele costituzionali per tutte le minoranze
In questi giorni l’Italia di Renzi e Alfano sembra più conservatrice persino dell’Idaho e dello Utah. Con lo scarno comunicato del 6 ottobre, la Corte suprema degli Stati Uniti ha respinto i ricorsi di cinque Stati che difendevano il proprio diritto di limitare il matrimonio alle coppie di sesso diverso. La decisione della Corte suprema – senza motivazione – ha reso definitive le sentenze di tre Corti d’appello: ciò significa non solo che il matrimonio tra persone dello stesso sesso è diventato immediatamente legale nei cinque Stati coinvolti nel ricorso, ma anche che lo sarà inevitabilmente in altri sei che rientrano nella giurisdizione delle Corti d’appello in questione.
Alla decisione di lunedì della Corte suprema è seguita, il giorno successivo, una sentenza della Corte d’appello del Nono circuito che, in linea con le precedenti, ha deciso in favore del matrimonio egualitario. Anche in questo caso, il giudizio investe direttamente due Stati (Nevada e Idaho) ma ne coinvolge potenzialmente altri tre (Alaska, Arizona e Montana). Se la sentenza diventerà definitiva, si applicherà, all’intero Nono circuito. Entro breve, quindi, le coppie dello stesso sesso potranno sposarsi in 35 Stati.
Se è chiara la tendenza positiva, compreso – almeno implicitamente – l’orientamento della Corte suprema, si pone il problema delle due velocità con cui i diritti civili stanno avanzando nel Paese.
L’area del profondo Sud (in particolare Louisiana, Mississippi e Alabama) non viene minimamente sfiorata dagli effetti delle sentenze pronunciate finora. Una situazione che ricorda da vicino quanto sperimentato riguardo ai diritti della comunità afroamericana. Per questo, se l’evoluzione del 6 ottobre è stata salutata come un successo, il movimento lgbt avrebbe preferito che la Corte suprema entrasse nel merito della questione, per arrivare in tempi rapidi a una sentenza definitiva valida in tutto il territorio Usa.
Come ha chiarito pubblicamente nelle scorse settimane la giudice Ruth Bader Ginzburg – leader della componente progressista della Corte – i giudici supremi interverranno se sarà necessario per dirimere un’eventuale controversia tra Corti d’appello. Potrebbe accadere con la pronuncia, attesa a breve, del Sesto circuito con sede a Cincinnati: il collegio, in questo caso, è composto da una maggioranza di giudici nominati da presidenti repubblicani.
Le Corti federali sono chiamate a verificare la costituzionalità dei divieti dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, approvati nel decennio passato da una trentina di Stati dell’Unione. Nel sistema Usa il controllo di costituzionalità è diffuso, cioè demandato ai singoli tribunali federali e non ad un unico organo centrale. I cittadini possono invocare l’intervento di un giudice federale se ritengono che una legge vìoli i loro diritti costituzionali. E il singolo giudice può disapplicarla se la ritiene incostituzionale. Sono quindi le caratteristiche del sistema giuridico americano di common law, e in particolare l’intreccio del principio dei precedenti vincolanti con il controllo diffuso di costituzionalità, a determinare termini e protagonisti della battaglia per il matrimonio egualitario negli Stati Uniti.
La controversia legale, dunque, è tutta intorno all’esistenza o meno di un diritto costituzionale al matrimonio per le coppie dello stesso sesso.
Un tema che incrocia tre aspetti.
In primo luogo, la contrapposizione tra il diritto fondamentale al matrimonio, di cui godere senza discriminazioni sulla base della «clausola di eguale protezione delle leggi» sancita dal XIV emendamento (approvato dopo la Guerra civile) e il diritto dei singoli Stati a difendere un presunto interesse legittimo (la tradizione, il diritto dei figli ad avere un padre e una madre, ecc.). Finora i giudici federali d’appello hanno negato l’esistenza di tale interesse legittimo. Memorabili le parole di Richard Posner, l’estensore della sentenza della Corte d’appello del Settimo circuito, considerato uno dei massimi giuristi statunitensi: a proposito dell’interesse degli Stati a tutelare il matrimonio tradizionale, ha scritto che «le tradizioni possono essere nocive o inoffensive», ma quando una tradizione diventa legge «e discrimina un gruppo di persone, causando loro un danno, non costituisce semplicemente un innocuo anacronismo, ma una violazione della clausola di eguale protezione».
Il secondo aspetto è quello del diritto, tradizionalmente riconosciuto agli Stati, di legiferare in materia di matrimonio, stabilendone ad esempio i requisiti di accesso. È un diritto non assoluto, come già stabilito dalla Corte suprema nel 1967 quando, in Loving v. Virginia, ha cancellato le leggi statali che proibivano i matrimoni interrazziali. La dottrina dei «diritti degli Stati», contrapposti al potere della Federazione, attraversa l’intera storia della Repubblica americana, e nei decenni passati è stata al centro del conflitto sulla segregazione razziale negli Stati del Sud. E oggi si ripropone.
Il terzo elemento riguarda la dialettica tra la volontà della maggioranza, espressa tramite referendum o attraverso le assemblee legislative statali, e l’intervento dei tribunali. Secondo i conservatori, l’avanzata dei diritti delle persone lgbt è il frutto dell’attivismo di funzionari non eletti dal popolo, che schiacciano leggi approvate democraticamente.
Anche su questo punto il giudice Posner è laconico: «Le minoranze calpestate nel processo democratico hanno diritto a ricorrere alle Corti; si chiama diritto costituzionale».
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