L’editrice La nave di Teseo, che apre le porte alle letterature d’Africa, ci regala Gloria (pp. 432, euro 22, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini),il nuovo romanzo di Noviolet Bulawayo, scrittrice dello Zimbabwe che ha esordito con vivo successo nel 2013 con C’è bisogno di nuovi nomi, segnalato anche al Booker Prize.
Gloria è davvero un romanzo fiume: oltre quattrocento pagine dense di fatti, colpi di scena, movimenti di moltitudini da cui emergono numerosissimi personaggi icastici, tracciati con mano abile. Un mondo tumultuoso, composto interamente di animali – capre, cani, mucche, maiali, asini, cavalli e altri vari animali da fattoria e non – che insieme formano la nazione di Jidada. Anche il linguaggio appare animalizzato, e presenta «mals» e «femals» anziché maschi e femmine. La derivazione satirica dalla Fattoria degli animali di George Orwell è palese e dichiarata, ma costituisce solo un punto di partenza, poiché Bulawayo gonfia e deforma la narrazione rendendola turgida ed eccessiva, iperreale fino a diventare assurda e insostenibile. Eppure siamo di fronte a un racconto di natura strettamente storica che ripercorre le vicende recenti dello Zimbabwe rifacendosi spesso alla guerra di liberazione anticoloniale. Ciò che mette a fuoco specificamente, tuttavia, è il periodo dell’indipendenza nell’ultima fase del regime di Robert Mugabe e subito dopo la sua caduta nel 2017, con l’avvento del suo ex vice Emmerson Mnangagwa — il Coccodrillo che si rivela ancora più brutale del predecessore, il Vecchio Cavallo accompagnato dall’avida consorte, l’Asina Prof. Dolce Madre che sfoggia zoccoli di Gucci (cioè Grace Mugabe).

LA VENA TRAGICO-FARSESCA che innerva questo importante romanzo africano è robusta e affonda le radici in una tradizione tipica del continente. A partire dall’oralità – da sempre cifra personale di Noviolet Bulawayo – che si compone in modo creativo con la comunicazione digitale dei social, i filoni africani riportano a una ormai cospicua serie di antecedenti significativi. Innanzitutto al discorso amaro e disperato sulla guerra civile in Sozaboy di Ken Saro-Wiwa (1985), ma anche ai più lontani esempi di sarcastica satira del mondo corrotto delle prime indipendenze in Un uomo del popolo di Chinua Achebe (1966) e The Beautyful Ones Are Not Yet Born di Ayi Kwei Armah (1968), ove il protagonista era sempre un giovane alle prese con la violenza del potere, proprio come accade alla giovane capra Destiny che per buona parte di Gloria è la voce narrante autobiografica d’un paese stravolto da una tirannia crudele e grottesca.

La narrazione che si dilata nella satira sociopolitica è del resto caratteristica di Ngugi wa Thiong’o, da Petali di sangue del 1977 fino a Il mago dei corvi del 2006: una serie di quadri che riferiscono di una società sempre più lontana dagli ideali della lotta anticoloniale, una popolazione inerme e straziata, dedita ormai soltanto agli stratagemmi di una disperata sopravvivenza. E naturalmente va qui citato Wole Soyinka, da sempre critico feroce della sopraffazione e della violenza, e vicino a Bulawayo nella dilatazione estrema del narrare, riscontrabile nelle sue ultime opere e soprattutto in Cronache dalla terra dei più felici al mondo del 2020, appena pubblicato proprio da La nave di Teseo. Con le sue 565 pagine, questo libro di Soyinka conferma la tendenza di un certo romanzo africano a dilatarsi sempre di più non solo nello spazio metaforico dell’invenzione, ma anche nelle pagine offerte al lettore.
Tutte queste opere, insieme a Gloria e ad altre che non si citano per brevità, costituiscono un importante panorama di riferimento culturale della contemporaneità e avvertono come la caduta e l’abbandono non solo degli ideali, ma anche delle idee, trascini le società sotto il giogo degli avidi prepotenti e consenta loro di imporre dittature così spinte da risultare caricaturali, non fosse per il dolore e il sangue che ne grondano.

IN «GLORIA» i riferimenti continui alla realtà dello Zimbabwe di questi anni non impediscono di riscontrare i caratteri ampiamente generali di uno stravolgimento drammatico della gestione del potere che, richiamandosi al «popolo» e alla «nazione», di fatto trasforma i cittadini in moltitudine di soggetti passivi che, nella parossistica lotta quotidiana per salvarsi e non soccombere, smarriscono la capacità di organizzarsi e combattere.
Il ricordo delle trascorse battaglie anticoloniali ritorna in Gloria con accenti di amaro rimpianto, di accorata nostalgia d’un tempo e d’un mondo in cui esistevano princìpi di giustizia cui rifarsi, figure di riferimento cui guardare. È con dolore che la giovane Destiny scopre di aver avuto una famiglia e un villaggio (appunto Bulawayo), degli avi importanti e stimati, e un’eredità di coraggio incarnata dall’eroina Nehanda (già celebrata dalla scrittrice zimbabweana Yvonne Vera, che Noviolet Bulawayo cita ripetutamente in Gloria) – e che tutto ciò è stato arso e distrutto dalle milizie del Coccodrillo a caccia di fantomatici Dissidenti.

Gloria è, tuttavia, un romanzo complesso e sfaccettato che offre attraenti soluzioni sperimentali dal punto di vista stilistico. L’enfasi creata dalla dilatazione strutturale ha un corrispettivo calzante nel linguaggio e nelle tecniche espressive. Limitandosi ad alcuni accenni, va sottolineato il carattere eterogeneo del testo complessivo, che mescola il racconto in prima persona al dialogo teatrale, con intermezzi di capitoli per così dire riflessivi composti di osservazioni e aforismi, e vi aggiunge porzioni narrate in terza persona.
La lingua si dichiara subito di impianto orale, con l’uso di interiezioni, intercalari e altri frammenti in lingua africana (forse ndebele), come l’onnipresente tholukuthi che crea Leitmotif, ma anche le parti dialogate antifoniche, a botta e risposta, tipiche della cerimonialità nella comunicazione comunitaria africana; e l’inserimento disinvolto di detti e proverbi tradizionali nel tessuto espressivo. A ciò si aggiunga l’uso insistente, talora ossessivo, della reiterazione di vocaboli e segmenti di frasi; e la frequente comparsa delle genealogie ritmate come giaculatorie che mescolano la tradizione africana all’esempio biblico.

MA LA LINGUA di Noviolet Bulawayo è anche intrisa della pratica della comunicazione digitale senza comunque lasciarsene imprigionare, ed emergendone con lo zampillio di una scrittura agile e veloce, tagliente e sintetica, come quando commenta amaramente: «Difendere una Rivoluzione, davvero? Quando di fatto tutti sappiamo che stiamo difendendo una farsa?»
Tenendo conto della poliedrica complessità di questo testo, va reso omaggio alle traduttrici Maria Baiocchi e Anna Tagliavini che hanno saputo offrire una versione saporita e disinvolta ai lettori italiani, consentendo loro di avvertire le novità ma anche le valenze della tradizione nella scrittura narrativa. E infine un grazie particolare a Noviolet Bulawayo per aver voluto dedicare il suo nuovo romanzo a un amico italiano tragicamente scomparso, l’inimitabile Pier Paolo Frassinelli la cui memoria rimane viva in noi.