Ci sono due immagini, all’alfa e all’omega della traiettoria troppo breve di Gastone Novelli (morto a 43 anni, per le conseguenze di un intervento, alla fine del 1968). Nessuna delle due è una sua opera; ma, a specchio l’una dell’altra, di lui ci dicono molto – forse tutto. La prima a venire in mente, in ordine di tempo, è l’ultima. Il 18 giugno 1968 è in programma l’inaugurazione della Biennale di Venezia ma, dopo le contestazioni alla Triennale di Milano e al Cinema nuovo di Pesaro, il vento del Sessantotto soffia forte pure in Laguna (lo IUAV è occupato da un anno e si rifiuta di chiamare le forze dell’ordine); sicché, preventivamente, si pensa bene di mandare i celerini. Che il giorno della vernice pestano un po’ tutto quello che si muove. Le istantanee fosche ed elettriche degli scontri, fra gli altri di Mulas e Berengo Gardin, sono le immagini più memorabili di quella Biennale. Per protesta i padiglioni sono boicottati dagli artisti e Favaretto Fisca, sindaco e presidente della Biennale, passa in rassegna le pareti vuote. Novelli, insieme al dioscuro Achille Perilli, dà una torsione concettuale alla protesta: le sue tele le rovescia e scrive al verso LA BIENNALE È FASCISTA. Di lì a poco, alla mostra del Cinema, anche Pasolini si unisce alla rivolta capeggiata da Zavattini. (Non farà in tempo a vedere, Novelli, lo statuto «democratico e antifascista» della Biennale: che nel ’73 prenderà il posto di quello del ’38. Ma il bel gioco durerà poco: dopo un paio di edizioni memorabili, la Biennale «militante» di Carlo Ripa di Meana verrà «tornata all’ordine» come Tutto Il Resto; il resto, appunto, è storia).

Gastone Novelli, “Grande aquilone,” tecnica mista su tela, cm. 114 x 140

Se la Biennale ’68 è la fine della storia, all’inizio c’è un altro muro. Il 24 ottobre 1943, all’indomani della strage di Pietralata (dieci partigiani massacrati per l’attacco al Forte Tiburtino), Novelli diciottenne è fra i rastrellati delle SS; lui tenta di dirottarne l’auto e loro pensano di passargli sopra, poi si accontentano di bastonarlo e lo portano a Regina Cœli dove è condannato a morte e torturato, restandoci sino alla Liberazione di Roma (gli salva la vita sua madre, amica d’infanzia di Hermann Göring). Le lettere dal carcere sono i primi degli Scritti ’43-’68 (raccolti da NERO per le cure discrete ma impeccabili di Paola Bonani, pp. 306, euro 25,00: ad assai integrare una prima raccolta allestita nel 1976 da Perilli sulla rivista «Grammatica»), gli ultimi quelli sulla Biennale contestata.
Come era successo a Dostoevskij (e a Maurice Blanchot), l’attesa dell’esecuzione segna la sua esistenza a venire: «Mi staccai un poco dal mio corpo e mi convinsi che non sarei morto con lui». Questo distacco da sé segnerà il sistema di cifrature, e parziali decodifiche, cui corrisponde la sua arte matura. Chi la ricondusse all’etimo di Regina Cœli fu un grande scrittore suo amico e a sua volta reduce di guerra, Claude Simon: che nel ’62 lesse il suo linguaggio come sempre scritto su un muro, un «ripartire da zero dopo l’inferno, il nulla, la morte di Dio e dell’uomo» (su ekphrasis da Novelli Simon ha costruito nel ’97 uno dei suoi ultimi libri, Le jardin des plantes).
Come ha ricostruito Romy Golan (Muralnomad. The Paradox of Wall Painting, Europe 1927-1957, Yale University Press 2009) la pittura murale era stata, trasversale alla politica, di gran voga negli anni trenta: dagli exploits di Diego Rivera e compagni al Lavoro fascista di Sironi all’Expo del ’37 (di quell’anno, anche Guernica di Picasso, pure a dimensione muro). L’«internazionale murale» continua però a spopolare sino agli anni cinquanta allorché si produce, secondo Golan, un’«inversione dei segni»: in nome di istanze anti-propagandistiche e anti-monumentali il medium (o meta-medium) «murale» si riconverte in forme più sottili. Chissà allora che non si possano leggere come forse inconscia inversione di segni, nei confronti delle retoriche dei totalitarismi, pure le «poetiche del muro» di artisti informali e post-, come Novelli, segnati dall’antifascismo e dall’esistenzialismo (un nome per tutti, quello di Fautrier; dopo il racconto di Sartre sulla Guerra di Spagna, Il muro dell’esistenzialismo è un’immagine-chiave).
Pietà oggettiva di Elio Pagliarani
Non stupisce che tanti scrittori siano stati attratti da Novelli, dato il rilievo della scrittura nella sua figurazione. Lui stesso paragona la sua opera a un «lungo diario per fortuna non esclusivamente suo»: «un “diario-elastico” , un filo a piombo senza però il piombo in fondo». Pensando alla pietà oggettiva di un altro suo amico, Elio Pagliarani, quella di Novelli è un’autobiografia «oggettiva», staccata da sé e sottratta, così, al determinismo finalistico dei libri che danno conto, implacabili, di come si diventa ciò che si è. Novelli continua invece ad avvertire «una nebbia fitta che lo divide da se stesso»; paragona la sua vita a «un imprevedibile segno di matita senza un inizio né una fine». Se sui suoi «muri» graffia delle scritte, insomma, è per sorprendersi a decifrarle lui stesso. Dipingere è «come toccare un muro al buio», è «scrivere con un alfabeto ancora da inventare». Nel 1958 Novelli pubblica un libro intitolato proprio Scritto sul muro, dove la scrittura è «nel segno dell’anti-nozione», che «cerca di raggiungere l’origine delle cose». (Analoga la funzione che attribuisce al viaggio in Grecia, di cui scrive in un libro pubblicato nel ’66 dall’Arco d’Alibert – e già riproposto da Baldini & Castoldi nel ’99 nonché, in Francia, da Trente-trois morceaux, nel 2015.)
Naturalmente c’è Twombly – la cui epifania romana, nel ’57, segna una generazione di artisti come forse nessun’altra di quegli anni –, e dietro di lui Klee (fra le novità dell’edizione NERO le dispense di Novelli per un corso tenuto alla Facoltà di Architettura alla Sapienza, nel ’66: dove Klee, citato, è immanente alla struttura dell’argomentazione), alle radici della Pittura procedente da segni teorizzata da Novelli nel ’64; ma c’è una torsione auto-analitica, nella sua «grammatica arbitraria» votata a «un valore di ipotesi», che fa pensare a un altro reduce della Resistenza che quei traumi ha allontanato da sé, l’hyper-ipotetico Manganelli (quando legge Hilarotragœdia Novelli è folgorato da un’anima gemella: e allestisce illustrazioni formidabili). Quando dice di essere «partito per l’Egeo cercando di dimenticare ogni pre-nozione», «come fosse l’Africa», ci si ricorda del Manga che davanti alla «superbia geometrica» del Partenone rimpiange «gli spazi planetari, il fango organico dell’Africa», traumaticamente incontrata nel ’70. La Grecia di Novelli esclude ogni euritmia classica: come quella del suo mentore ai tempi del Brasile, Emilio Villa (nei primi cinquanta, al MASP di Pier Maria Bardi), è semmai un’Atena Nera, tenebrosamente pre-classica: l’etimo oscuro inelaborato dietro ogni possibile razionalizzazione Occidentale.
In fondo Novelli, per tutta la vita, non ha fatto altro che rovesciarsi, alla ricerca di un’ipotesi di sé al di là del muro di se stesso. Su quella superficie scabra e sfuggente che era la sua esistenza ha scritto, a parole e con figure, tutta la sua opera. Nel ’59 superò un forte disagio psichico in una clinica per i disturbi del sonno (se ne ricorderà forse, di lì a poco, l’amico Pagliarani nel concepire La ballata di Rudi). All’inizio di quel percorso, come un viatico, compose un piccolo libro d’artista intitolato Dedica e destinato a un solo lettore, se stesso. È qui che si legge: «Scrivere sul dietro di una cosa che si ama è un gesto come tutti gli altri, vive perché lo si è fatto e non se può più andare. Anche la gente non se ne può più andare da quello che fa».