Il quartetto Ahmed, foto di Emanuele Meschini

Dopo averlo portato in giro per i bar di New York, Marc Ribot ha pensato che il suo trio The Jazz Bins poteva provare a presentarlo anche in tour: nella sua configurazione classica – Hammond, chitarra e batteria – l’organ trio è stato in assoluto una delle formule più popolari di tutta la vicenda del jazz, e in effetti continua ad avere un suo perché, come si è visto sabato sera in un’unica data italiana – sold out – dei Jazz Bins per Novara Jazz, allo spazio Nòva. La vicenda dell’organ trio ha avuto anche qualche momento più avventuroso, ma Ribot si riallaccia alla tradizione degli anni d’oro di questo genere, con una musica che punta sul groove e che è intrisa di blues, gospel, soul, funky: una tradizione che Ribot conosce in maniera vissuta, perché la sua prima partecipazione ad una tournée internazionale, che lo condusse anche per la prima volta in Europa, fu nel ’79 con “Brother” Jack McDuff, che dell’Hammond e dell’organ trio è stato uno dei maestri. Col mestiere di uno che nella sua carriera ne ha fatte di tutti i colori (Tom Waits, Costello, Zorn, Capossela…), Ribot con i Jazz Beans va a mani basse, e si vede che vuole soprattutto divertirsi e divertire; ma è molto gustoso sentire nelle sue improvvisazioni una tensione, un temperamento nervoso che esorbita dal canoni della chitarra jazz nei trii imperniati sull’Hammond: del resto anche McDuff non lo trovava troppo in linea.

La redazione consiglia:
Festa di compleanno senza nostalgiaQUANTO ai partner, Ribot si è trattato bene: Greg Lewis, newyorkese, rinomato specialista dell’Hammond, con alcuni album all’attivo, a cominciare da uno, del 2010, consacrato a brani di Monk; e Joe Dyson, di New Orleans (è apparso anche nella serie televisiva Treme, sulla Crescent City post-Katrina): batterista solido e muscolare, Dyson è un talento valorizzato negli ultimi anni da Pat Metheny per il suo trio Side-Eye (che in luglio tornerà in Italia: Lucca, Udine e Bergamo). Ribot non si risparmia e i Jazz Beans suonano un’ora e tre quarti: con foga brani di Gene Ammons, James Brown (Ain’t It Funky) e dell’amato da Ribot Joe Bataan, e con delicatezza Chelsea Girls di Lou Reed resa immortale da Nico. Con un riff incalzante e ipnotico della chitarra, un pezzo ha un favoloso sapore free funk e suona inconfondibilmente colemaniano: è Times Square, una delle tracce di Of Human Feelings, album dell’82 di Ornette, piena fase elettrica col suo Prime Time: è un brano che da solo vale il concerto.  La musica è un flusso con reiterazioni ossessive ma anche con un suo paradossale swing,

ANCHE un brano di Ahmed, che si sono esibiti prima di Ribot, vale il concerto: solo che è l’intero concerto, 55 minuti senza soluzione di continuità. Guidato dal pianista Pat Thomas, una delle figure di riferimento dell’improvvisazione britannica, il quartetto Ahmed, con Seymour Wright, sax tenore, Joel Grip, contrabbasso, e Antonin Gerbal, batteria, è nato per onorare Ahmed Abdul-Malik: all’anagrafe Jonathan Tim Jr, nato nel ’27 a Brooklyn da genitori immigrati dalle Indie Occidentali Britanniche, fra la metà degli anni cinquanta e la metà dei sessanta Abdul-Malik come contrabbassista fu accanto anche in studio di incisione a figure della statura di Monk, Art Blakey, Randy Weston, Earl Hines, Herbie Mann, Odetta, ma – anche suonatore di oud – con gli album a suo nome realizzati nello stesso decennio è stato un battistrada dell’incontro del jazz con elementi musicali mediorientali e africani. Pat Thomas e i suoi cominciano e chiudono evocando Evidence di Monk (un brano che con Abdul-Malik al basso è per esempio nel live di Monk alla Carnegie Hall, con Coltrane al tenore), ma il loro richiamo a Abdul-Malik non è affatto filologico e convenzionale: è un omaggio ad un non conformista reso con un jazz eccentrico, verrebbe da dire “dadaista”, e in questo senso molto europeo, che si sottrae anche a stilemi free e a situazioni tipiche dell’improvvisazione radicale. La musica è un flusso con reiterazioni ossessive ma anche con un suo paradossale swing, con Thomas che non articola quasi mai ma lavora quasi esclusivamente di accordi e clusters, abbattendo molto di piatto le sue cospicue mani sulla tastiera, e con Wright geniale nell’affezionarsi ad una combinazione di tre-quattro note, e ribadendola cocciutamente e ricamandoci sopra per un pezzo, o insistendo semplicemente su un verso, un suono, un fischio, senza mai concedere un fraseggio degno di questo nome. Non prolungheremo ulteriormente l’elogio di Ahmed – che avevamo già fatto scrivendone da Jazz em Agosto di Lisbona dello scorso anno – e elogeremo invece Novara Jazz che ha pensato di proporli in Italia. 

Dopo questa “NJ Weekender Spring Edition” (due giorni anche con altri gruppi e dovizia di Dj set), Novara Jazz è proiettata adesso verso il suo festival annuale: due fine settimana lunghi, 1-4 e 8-11 giugno che si preannunciano sostanziosi.