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Note sulla contro-vita delle opere di Philip Roth

Note sulla contro-vita  delle opere di Philip RothPhilip Roth

Classici contemporanei L'ultimo dei Meridiani dedicati al grande scrittore americano

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 giugno 2019

Essendo cambiate nei cinquant’anni che ci separano dalla inaugurazione della collana dei Meridiani, voluta da Vittorio Sereni nel 1969, le coordinate della nostra ricezione, e di conseguenza i costumi della lettura, non soltanto è vero – come scriveva il bibliografo neozelandese Donald F. McKenzie – che «nuovi lettori producono nuovi testi», ma il contributo che alcuni capisaldi dell’editoria hanno dato alla costruzione del senso comune si è rovesciato sulla concezione stessa dei libri, e non sempre in negativo: a volte, infatti, l’editoria si è adeguata alle richieste di maggiori informazioni e strumenti di decodifica dei classici, che hanno indotto nuove traduzioni e preziose curatele, soprattutto per quanto riguarda gli autori contemporanei, molto letti ma non ancora propriamente studiati.

Il caso dei Meridiani che antologizzano alcune delle opere di Philip Roth è esemplare, e il terzo di questi volumi, appena uscito, testimonia – grazie a quelle che con lodevole understatement vengono chiamate «Notizie sui testi», ma che sono veri e propri saggi firmati da Paolo Simonetti – gli esiti migliori del contributo alla canonizzazione di un autore, tramite l’investimento sugli apparati. Il volume (Philip Roth, Romanzi, 1998-2010, pp. 1832, euro 80,00) è introdotto da uno scritto di Alessandro Piperno e contiene la conclusione della Trilogia avviata con Pastorale americana nel 1997 (Ho sposato un comunista e La macchia umana), più alcuni titoli dell’ultima fase dello scrittore americano, L’animale morente, Il complotto contro l’America, Everyman, Nemesi, la cui popolarità e collocazione recente nel tempo esime dal sintetizzarne le trame.

Quel che il volume aggiunge, oltre al godibile testo di Piperno sul quale si potrà o meno concordare, è infatti una qualitativamente preziosa selezione di stralci di interviste, ricostruzioni delle fonti cui Roth ha attinto, passaggi di introduzioni dell’autore riservate alle tirature limitate della Franklin Library Edition, commenti di amici scrittori, bacchettate dello stesso autore a illazioni giornalistiche infondate, e frammenti della cornice esistenziale, nonché storico-politica in cui i vari romanzi sono stati concepiti.

Apprendiamo, per esempio, a proposito della genesi di Ho sposato un comunista, che Roth ha attinto ai suoi ricordi, allora molto nitidi, delle notizie ascoltate perlopiù alla radio e dalle discussioni fra parenti molto politicizzati sulla «crociata anticomunista», che cominciò quando aveva tredici anni: ne parlò in una lunga video-intervista rilasciata a Christopher Sykes per il programma «Web of Stories», che Simonetti ci restituisce dai suoi appunti. Come pure interessante è la continuità che Roth stabilisce con il romanzo precedente, all’epoca in cui scrive la prefazione all’edizione limitata di The Human Stain pubblicata dalla Franklin Library nel 2000. Per quanto distanti siano i due protagonisti –il Levov di Pastorale perfettamente ambientato nell’orgogliosa appartenenza a famiglia e nazione, e l’ebreo comunista Ira Ringold, radicalmente a disagio nella società che disprezza – Roth definisce il protagonista di I married a communist «l’analogo oscuro dello “Svedese”». Il personaggio fu plasmato sull’esempio di un cugino acquisito, reduce di guerra, dalle idee spiccatamente sinistrorse: «Era una testa calda e naturalmente ero interessato a questo scavezzacollo, uno che era contro tutti». Quanto al professore di letteratura Murray Ringold, responsabile della maturazione intellettuale di Nathan Zuckerman, Roth esibisce volentieri il suo debito verso un ex professore di lingue romanze conosciuto al liceo, Bob «Doc» Lowenstein: «Come tutti i grandi insegnanti, incarnava il dramma pedagogico della trasformazione per mezzo della parola».

Una volta che Ho sposato un comunista fu terminato, Roth lo inviò all’amico Saul Bellow, che così espresse il suo gradimento: «Leggere un tuo manoscritto è sempre un piacere – lo dico con sincerità – ma stavolta l’effetto generale non è stato soddisfacente… Dovrebbe esserci un certo distacco dalle passioni dell’autore… Il lettore, per rispetto della tua abilità, è più che disposto a essere d’accordo con te. Ma non sarà d’accordo, come non lo sono stato io, con Ira, che probabilmente è il meno accattivante dei tuoi personaggi…, un omone forzuto e stupido che ti attrae per ragioni a me invisibili». (da Letters, a cura di Benjamin Taylor, Viking, New York 2010).

Fin qui, solo un assaggio di quanto si trova negli apparati del volume e dal cui patrimonio non conviene estrarre ulteriori esempi, riducendo a un inventario di frasi significative quella contro-vita dei romanzi, che Paolo Simonetti ci ha restituito, dopo un lavoro capillare, e tramite una scrittura attraente e un montaggio all’altezza dell’autore antologizzato.

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