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Note di «neo-colonialismo» e altre civiltà: Joël Bons e il gioco di «Nomaden»

Note di «neo-colonialismo» e altre civiltà: Joël Bons e il gioco di «Nomaden»

Biennale musica Presentata l'opera del sessantunenne compositore olandese con l'Atlas Ensemble diretto da Ed Spanjaard

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 6 ottobre 2019

Il solista principale, Jean-Guihen Queyras, violoncellista, è bravissimo, proprio super. Suono asciutto, molto «moderno». L’Atlas Ensemble diretto da Ed Spanjaard, compagine con sede Amsterdam formata da diciotto strumentisti provenienti da Cina, Giappone, Medio Oriente ed Europa, è perfetto nell’eseguire i preziosismi che costellano l’opera. La cui genesi e il cui esito si possono raccontare così. Conosci dettagliatamente le musiche etniche di tutto il mondo. Le trascrivi in chiave accademica, con gentilezza, con delicatezza, intendiamoci. Le arricchisci un po’ col sapere di vari corsi superiori di contrappunto. Aggiungi musiche tue a quelle musiche (che sono diventate tue) di civiltà «altre» rispetto a quella europea. Ed ecco: il gioco è fatto. Ecco Nomaden di Joël Bons.

COMPOSITORE olandese sessantunenne. Ensemble che per questo brano in 38 movimenti utilizza strumenti come il duduk armeno, il setar iraniano, il kamancha azerbaigiano, l’ehru cinese, lo shakuhachi giapponese, il sarangi indiano, lo sheng cinese. A questi si uniscono per dialogare, per confrontarsi e integrarsi, il violoncello solista, l’oboe, il clarinetto, il violino, la viola, il contrabbasso, le percussioni. Il cellista è solista principale ma molti altri virtuosi di strumenti «esotici» sono solisti. A turno, attraverso passaggi.

DIRE neo-colonialismo a proposito di Nomaden sembra esagerato. Però le diverse culture si incontrano sulla base dell’armonia classica, non si pensa a una innovazione linguistica globale ma a un inserimento nel discorso della grande tradizione tonale occidentale. Tutt’al più c’è l’ormai stanco rito dell’omaggio paternalista ai modi musicali delle altre tradizioni. L’inizio è in un clima assorto. Il melodizzare del violoncello di Queyras è quanto di più «temperato» consequenziale e cantabile si possa immaginare da parte di un autore contemporaneo. Dopo la fase d’apertura esce fuori lo sheng di Zhang Meng con un motivo giocoso un po’ bop. Facile, scorrevole. Una sorpresa che non si ripeterà tante volte. Il motivo viene ripreso a canone classicissimo, sempre badando all’orecchiabilità, dal violoncello. Poi le cose peggiorano. Un motivo di danza esposto da setar e kamancha che suona, a noi italioti, come una tarantella appena un po’ diversa dalle solite dà luogo a un episodio d’assieme a tutto folk che ci si sarebbe risparmiati volentieri. Ma Bons è abile orchestratore e muove gli strumenti con agili polifonie.

NON C’È MOLTO altro con cui consolarsi quando ricomincia la tiritera folk in salsa dotta. A parte la preziosità timbrica degli impasti sonori e a parte la bellezza della melodia, un po’ pucciniana un po’ cool jazz morbido del duduk di Raphaela Danksagmüller. Al violoncello Bons riserva melodie di un semplicismo che Bach o Beethoven o Chopin, per non parlare di Gesualdo o Wagner, avrebbero disprezzato. Perché un conto è la linearità e un altro conto è l’ovvietà.
Un’operazione simile la fa Matteo Franceschini – a cui va il Leone d’argento della Bm 2019 – con Songbook in prima assoluta. Qui il rock classico che più classico non si può dialoga con materiali sonori presunti contemporanei nel senso della musica contemporanea non popular. Questi materiali sono eseguiti da un ensemble di fiati e da un quartetto d’archi. Un po’ di minimal, il battito rock elementare senza sosta, il niente delle idee.

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