Norman Foster, l’ottimista siderale che libera lo spazio
A Parigi, Centre Pompidou Conciliare linguaggio della tecnologia e sistema ambientale, fare delle reti di mobilità tardocapitaliste un luogo-cardine d’integrazione socio-planetaria: la missione di Norman Foster
A Parigi, Centre Pompidou Conciliare linguaggio della tecnologia e sistema ambientale, fare delle reti di mobilità tardocapitaliste un luogo-cardine d’integrazione socio-planetaria: la missione di Norman Foster
La pratica progettuale, è noto, non ammette il pessimismo, e per chi visita la mostra Norman Foster al Centre Pompidou (fino al 7 agosto) ciò è chiaro con la massima evidenza. Lo disse categorico lo stesso Foster: «Se non fossi un ottimista, sarebbe per me impossibile essere un architetto». È la critica architettonica, semmai, a sollevare qualche interrogativo, purché, per non essere accusata di parzialità, lo faccia con moderazione.
Per comprendere Foster, quindi, è opportuno tenere a mente questa sua idea positiva dell’architettura che si estende in molteplici settori. Tra questi perfino quello dell’energia nucleare, come dimostra la sua centrale in miniatura di 10Mw. Il futuro, dunque, non gli si presenta mai incerto perché la razionalità (tecnologica) interviene in ogni istante per risolvere qualsiasi problema.
Quale poi sia il suo metodo e le idee che guidano la sua «agenzia» Foster + Partners lo spiega lui stesso nell’intervista concessa in catalogo a Frédéric Migayrou, curatore dell’esposizione. Doversi confrontare con un così vasto numero di discipline per fornire soluzioni appropriate in qualsiasi contesto, sia urbano sia extra-urbano, presuppone una visione globale («ecosistemica») del vivere sulla Terra. Innanzitutto significa avere «un approccio olistico per raggiungere un equilibrio con la natura», natura che per lui negli ultimi anni contiene anche lo spazio siderale.
Tra il 2012 e il 2015, infatti, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e la NASA l’hanno incaricato di progettare due insediamenti extraterrestri, uno sulla Luna e l’altro su Marte. Viene da pensare che quando un lontano giorno l’habitat terrestre sarà inospitale non ci comporteremo diversamente dagli antichi colonizzatori, senza il sacrificio, in questo caso, delle popolazioni indigene.
I progetti spaziali sono solo la parte finale delle sette sezioni che compongono la mostra. Le «prospettive futuribili» che ci attendono sono già presenti tra noi, e bisogna sostare nella sezione Reti e Mobilità per constatarlo. Nell’infilata di straordinari plastici e disegni sono richiamate le imprese più ardite dell’architetto britannico nelle infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni.
Sono progetti richiesti dagli apparati politico-industriali diffusi su scala globale, che nell’epoca del tardo-capitalismo hanno necessità di sempre più ramificate piattaforme aeroportuali (Londra-Stansted, Hong Kong, Pechino, Città del Messico), reti autostradali (viadotto Millau, ponte Millenium), ferroviarie (alta velocità Haramain in Arabia Saudita) e metropolitane (Bilbao, Londra-Canary Wharf) per razionalizzare il transito di persone, merci, dati e per connettere territori anche attraverso grandi terminal portuali (Monaco, Hong Kong).
Queste articolate infrastrutture si qualificano per Foster non solo per le loro mega-dimensioni, ma per la loro capacità di integrarsi con il contesto e corrispondere alla moltitudine di persone per le quali sono progettate. Il risultato prodotto non replica alcun modello precedente, al contrario tende a «massimizzare le differenze» e a favorire la «complessità».
Le questioni estetico-formali non sono eluse ma poste anch’esse all’interno delle problematiche tecnologiche, economiche e sociali contenute nel progetto. Pertanto Foster «mette da parte la tradizionale postura dell’architetto creativo, la funzione accademica dell’autore, la nozione di oggetto architettonico» (Migayrou), anche se non disdegna di adeguarsi alle tendenze di un mercato, in particolare quello immobiliare, dedito alla spettacolarizzazione dell’architettura, ormai definitivamente esaurita la vena hi-tech.
L’origine di ciò che lo porterà a essere un progettista multidisciplinare di fama internazionale va individuata già negli anni di adolescenza nella sua attrazione per tutto ciò che riguarda i dispositivi che rendono funzionante sia una macchina sia un edificio: dal seicentesco mulino a vento Bourn Windmill agli uffici modernisti Daily Express Building di Owen Williams incrociati a Manchester negli anni della sua precoce attività lavorativa e di studi universitari.
Sarà, tuttavia, il periodo di borsista trascorso alla Yale University che consentirà a Foster di maturare le sue convinzioni strutturali dello spazio. Dagli insegnamenti di Paul Rudolph impara la capacità comunicativa delle sezioni prospettiche; da Vincent Scully, il significato della storia (che preferisce chiamare Tradizione, come spiega la specifica sezione della mostra); da Serge Chermayeff, l’importanza dello spazio pubblico. Al periodo statunitense risale anche l’incontro con Richard Rogers, con il quale Foster fonda nel 1963 Team 4, insieme a loro: Georgie Wolton e Wendy Cheesman, la sua prima moglie.
Nella breve vita del gruppo (si scioglierà per dissidi nel 1967) lo Stabilimento Reliance Controls a Swindon (GB) rappresenta la prova pionieristica di un sistema costruttivo standardizzato che negli anni successivi subirà continui affinamenti nell’impiego di soluzioni d’avanguardia per liberare spazio attraverso tutti i servizi incorporati nella struttura, nei pavimenti e nei soffitti, in ordine: Terminal passeggeri Fred Olsen a Londra, Scuola polivalente a Newport, Ufficio sperimentale IBM a Cosham, Uffici Willis Faber & Dumas a Ipswich.
È chiaro che Foster arriva alle sue «integrazioni» fatte di assemblaggi prefabbricati attraverso la scoperta del programma californiano Case Study Houses e la lezione americana di Mies dell’«architettura pelle e ossa». Oltre, però, all’ingegneria strutturale, ai sistemi modulari e seriali, si applica per comprendere le pratiche sociali e le relazioni ambientali nelle quali s’inserisce l’architettura.
Un anno di svolta è il 1971, quando incontra Richard Buckminster Fuller chiamato in Inghilterra per la realizzazione di un teatro da dedicare a Samuel Beckett. La Cupola Fly’s Eye insieme all’automobile prototipo Dymaxion Car illustrano l’importanza della collaborazione con Buck: un sodalizio che nella progettazione congiunta di un teatro modulare ovoidale gli farà comprendere come si possono racchiudere grandi spazi con membrane sottili e strutture leggere consentendo il controllo delle condizioni climatiche interne.
Foster s’immerge nello studio innovativo dell’«ambiente globale», indagato nei suoi caratteri di sostenibilità ante litteram. Per questo segue con interesse il lavoro di Frederick Kiesler con la sua teoria del «correalismo», di Albert Frey, Georg Howe e Knud Lonberg-Holm, insieme a Buckminster Fuller nell’associazione Structural Study Ass (SSA). Risale a questo periodo il motto more with less: «Fare sempre di più con meno», immaginare di «fare tutto con niente».
Premesse che sono alla base dei risultati raggiunti dalla «città verticale» fosteriana. Dalla sede della HSBC a Hong Kong (1979-’86), con la sua piazza pubblica al centro, alla Millenium Tower a Tokyo (1989), che può ospitare fino a 60.000 persone, dalla sede della Commerzbank a Francoforte (1991-’97), dove si testa per la prima volta la ventilazione naturale, all’Hearst Tower di New York (2006), l’obiettivo è conciliare il linguaggio della tecnologia con il sistema ambientale, anche se il grattacielo di Foster non rifugge dal formalismo iconico, come testimonia il londinese «The Gherkin» (il cetriolino) o il discusso «The Tulip» che sempre in prossimità di St. Mary Axe dovrebbe elevarsi come una torre di osservazione.
È l’interesse ai cambiamenti che nel tempo subisce lo spazio della città a guidare il suo pensiero, vòlto a interrogarsi in che modo l’architettura può generare un «processo integrativo» in grado di dare a un qualsiasi luogo identità, presenza simbolica e nuova urbanità. Quanto ha realizzato a Nîmes con il Carré d’Art (1984-’93), a Berlino con la cupola del Reichstag (1992-’99) o a Londra con la Great Court del British Museum (1999) è la dimostrazione, al di là della scala, del suo «approccio sistemico».
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