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Norma Waterson, l’albero del canto

Norma Waterson, l’albero del cantoNorma Waterson

Ricordi/Una carriera lunga oltre mezzo secolo per la folksinger inglese, da poco scomparsa a 82 anni Ha dedicato una vita alla musica tradizionale del suo paese, divenendo la voce e l’anima del cosiddetto «secondo folk revival». Dagli esordi con i fratelli Mike e Lal al sodalizio con quello che diventerà suo marito, Martin Carthy, fino alla malattia e ai lavori con la figlia Eliza

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 26 marzo 2022

Cos’è un patriarca, e, precisiamo subito, una matriarca della musica «folk»? Una di quelle presenze che non avverti come un peso ingombrante, ma come fonte da cui imparare sempre qualcosa di nuovo. Sono persone che hanno fatto tesoro di tutto, e tutto o quasi ricordano, e sono lì, come guardiani sereni e per nulla dogmatici e accigliati di un patrimonio di conoscenze da tramandare. Ben sapendo che, nell’atto di affidare alla prossima generazione qualche scampolo vivo di quanto loro avevano imparato, il tempo lavorerà a modo suo modificandolo, ma qualcosa resterà. Molto cambiato, ma non irriconoscibile, anzi. Norma Waterson se n’è andata a ottantadue anni nella sua Inghilterra, Yorkshire, il 30 gennaio scorso, e con lei è scomparsa una di quelle figure di «alberi di canto» che hanno il ruolo favoloso e assai terragno, anche, di traghettatori del sapere. Perché al fondo c’è sempre quello snodo ineludibile di verità basiche per donne e uomini scaturiti dal ceppo Homo sapiens, che lei, maestra di sottigliezze estreme, sui repertori, sapeva invece condensare in una formula secca e apodittica, buona oggi, buona tra duecento anni; a richiesta di dare una sua definizione su cosa intendesse per «folk music», musica popolare, Norma Waterson con sublime e petrosa semplicità rispondeva: «Le storie delle persone. Quello che chiamiamo folk music altro non è che la raccolta dei racconti sulla condizione umana». Sembra un’ovvietà, non lo è.

CERCHIO VITALE
Sapiens è tale perché è l’unico essere vivente che sa tramandare alla propria prole racconti e storie per formarla, non solo gesti pratici di accudimento e per la sopravvivenza. Faceva anche precisazioni, a riguardo.
Sapeva bene che viviamo in un’epoca di realtà virtuale e di contatti mediati da uno schermo, ma ci teneva a precisare che ben poco è cambiato da quando chi ci ha preceduto secoli fa si schiariva la voce, imbracciava – o no – uno strumento, e dava il via alle danze: «Nasciamo, ci innamoriamo, facciamo esperienza della gioia e del dolore, e alla fine c’è lo stesso esito per tutti, ce ne andiamo. Il cerchio della vita si ripete allo stesso modo per tutti».
Norma Waterson ha raccontato storie della gente e del cerchio della vita infinito (a meno che Sapiens non trovi il modo per avvelenare definitamente l’unico pianeta che abbiamo) da quando era una ragazzina acerba, appassionata, con lunghi capelli neri e una frangetta impertinente.
Nei decenni, ha accumulato un sapere pratico condito di decisa personalità che ne farà un modello impegnativo per chiunque ne seguirà le orme. Norma Waterson è stata la voce e l’anima più importante del cosiddetto «secondo folk revival» inglese, quello che ha preso le mosse da una prima coscienziosa ricognizione su cosa significasse riscoprire le proprie tradizioni popolari.

C’ERA UNA VOLTA
Prima di lei, e dei Watersons tutti come band, chiamata così, con il cognome che li riuniva, e la esse aggiunta del plurale, c’era stato negli anni Cinquanta un mesto e appartato ricordo di tradizioni popolari musicali British, appannaggio solo di qualche anziano nostalgico sopravvissuto al magone del tempo e alle tempeste di fuoco della Luftwaffe nazista. Poi era arrivato, travolgente, il grande, quasi titanico Ewan McColl, nome d’arte di Jimmie Miller, cantore comunista che aveva recuperato canti di lavoro e oscure ballad, epica e cronaca sedimentata nelle canzoni: che eseguiva, perlopiù, a voce spiegata e declamatoria. Ed era successo poi un altro fatto ancora, decisivo per le sorti del folk revival con i colori della Union Jack. Nel 1959 Alan Lomax, etnomusicologo statunitense, assieme al padre aveva percorso in lungo e in largo gli States profondi a caccia di memorie folk, nere e bianche. Era anche l’uomo che aveva avuto il talento e il fiuto di mettere di fronte a un microfono nel ‘38 il dimenticato jazzista Jelly Roll Morton, facendogli ricostruire in memorabili ore di registrazione per la Library of Congress, a voce e sul pianoforte, la storia del jazz primigenio di New Orleans. Il tutto confluito anche in un bel libro. Lomax, nel suo paese a stelle e strisce, aveva anche riannodato la trama fitta di sopravvivenze «folk» delle antiche ballate inglesi approdate dall’altra parte del mondo con i velieri prima, i piroscafi a vapore poi. E nel farlo, battendo le province più sperdute dell’America profonda, s’era fatto accompagnare da un’esile e graziosa signorina inglese bionda e musicista interessata alla medesima caccia al tesoro folk: Shirley Collins. Che per l’etichetta fondata da Lomax incide, nella seconda metà degli anni Cinquanta, ellepì fondamentali per «fissare» il repertorio che frequenterà anche la sua diretta erede, Norma Waterson. Anche perché, a un certo punto, Collins per problemi psicologici seri smetterà completamente di cantare. Collins, quando è dal vivo, sui palchi del «nuovo» folk revival a Londra ha spesso al fianco Davey Graham, beatnik incallito con il gusto del viaggio, della scoperta delle musiche «altre» e delle antiche canzoni popolari inglesi. Eccellente domatore di plettri e corde, esperto di accordature particolari. I mattoni del folk sono quasi tutti a posto, per sostenere la casa in formazione dell’«altro» folk revival. Manca ancora un nome di musicista basilare, da accostare a quello di Norma Waterson: quello di Martin Carthy. Che con la signora Waterson avrà a che fare assai da vicino, diventandone il marito. Ma questa è storia dei primi anni Settanta.

INTESA PERFETTA
Intanto, Norma Waterson ha cominciato a camminare sulle proprie gambe. E a marcare il territorio del folk inglese con dischi che lasciano il segno. L’ha fatto appoggiandosi sull’intesa perfetta con i membri della sua musicalissima famiglia: il fratello Mike, la sorella Lal, il cugino John Harrison. Assieme, nei primi anni Sessanta, sono i Watersons. Gli astri nascenti del folk revival, guidati dalla carismatica Norma, che stabilisce i tour concertistici, e anche l’alternanza tra settimane di concerti, e settimane di riposo per crescere bene i figli, e provare e affinare quell’intesa di voci perfetta e quasi sconcertante che, in embrione, avevano già da bambini, quando, orfani prestissimo, per esorcizzare la paura iniziavano a cantare assieme seguiti dalle cure amorose di una nonna, Eliza, col sangue zingaro.
Nel 1965 esce un primo capolavoro, Frost and Fire: A Calendar of Ceremonial Folk Songs: la metafora del «ghiaccio e del fuoco» rende bene il cristallo incandescente di quel gioco di squadra vocale, con le favolose armonizzazioni senza strumenti. Guidate dall’acre contralto di Norma. Album dell’anno per il Melody Maker, in genere non tenero con le produzioni «folk». Ne è rimasta traccia, di quel periodo lontano ma radiosamente creativo (a ben vedere, sono gli stessi anni in cui i Beatles conquistano una prorompente maturità espressiva): Travelling for a Living è un magnifico documentario in bianco e nero della Bbc, che segue le vicende dei Watersons in tempo reale, è il ‘66, l’anno in cui incidono l’altrettanto memorabile The Watersons: Norma, la sorella «anziana», la vedete al volante del furgone, sigaretta in bocca, mentre disserta con la sua voce forte e amara sulla scomparsa della cultura della working class, sotto gli attacchi dei bombardieri tedeschi, e di come, in quel momento, ci sia bisogno di qualcuno che torni a sporcarsi le mani, a rompersi la schiena, a impastare il cemento che fa tenere assieme i mattoni della «folk tradition». Il loro lavoro, insomma. Che prosegue in quello stesso anno con la pubblicazione dell’incantevole A Yorskshire Garland.

LA SVOLTA
Poi i Waterson si sfaldano, e Norma dà una svolta radicale alla propria vita per qualche anno. Segue l’uomo di cui è innamorata nei Caraibi, dall’altra parte del mondo, diventa un’esperta della radiose onde sonore del calypso, diventa anche una scaltrita dj del genere. Quando torna in Inghilterra, nel ’72, prima partecipa a un altro progetto di famiglia, il poderoso Bright Phoebus di Lal e Mike Waterson, piccolo tesoro di canzoni tese e molto ispirate alle cupe «ballads» tradizionali del folk rock inglese con Richard Thompson, Ashley Hutchings e infine il citato Martin Carthy. La crema strumentale del folk rock: «Il trionfo dei Watersons – scrive il New Musical Express – lo shock del decennio per quanto riguarda la scena del folk». Lì scocca la scintilla: Norma e Martin si piacevano da sempre, ma da sempre quando uno era libero, l’altro aveva in corso qualche tormentata altra storia d’amore. Matrimonio folk rock per eccellenza: assieme la signora del canto puro e l’eminenza grigia del folk revival inglese, il musicista a cui Bob Dylan «ruberà», il tradizionale e riarrangiato Lord Franklyn, trasformandolo in Bob Dylan’s Dream, e Simon & Garfunkel la leggendaria Scarborough Fair.
Oltre alla sua corposa carriera solistica, strutturata assieme al formidabile violinista folk rock Dave Swarbrick, futura e affollettata stella dei Fairport Convention, Martin Carthy con Norma rimette assieme i Watersons. Martin prende il posto del cugino John Harrison, e tra il 1975 e il 1981 escono tre dischi memorabili, soprattutto quello del ritorno ufficiale, For Pence & Spicy Ale del ’75, seguito da Sound Your Instruments of Joy, che va a indagare nei repertori legati alla religiosità popolare, e infine Greenfields, 1981 (inizio di un decennio che non sarà particolarmente generoso con i folk rocker): apparentemente un lavoro minore, in realtà uno scrigno di delizie da riscoprire.

«COMUNIONE DI BENI»
La gloriosa sigla degli inizi rivivrà ancora una volta, per Norma Waterson, per così dire in «comunione di beni»: succederà nei tardi anni Novanta, il nome questa volta è Waterson:Carthy, con i due punti nel mezzo a scandire che si tratta di affari di famiglia, e che famiglia: i plettri inventivi di Martin Carthy, Norma Waterson che svetta con una voce che pur comincia ad avere molte, seducenti rughe d’espressione, la figlia d’arte Eliza Carthy nata nel ’75 di For Pence, violinista con una maturità invidiabile già da giovanissima («Inevitabile: sono cresciuta sotto, accanto e su un palcoscenico», racconta lei). Ne scaturisce una prima mandata di dischi, tre; vari, spesso impetuosi, usciti tra il ’94 e il ’99. Con ospiti importanti, ma un mercato, purtroppo, ormai rivolto da tutt’altra parte. Il che non significa che la gloriosa sigla non sia destinata a lanciare sfide nel futuro. Tant’è che nel 2002, 2004 e 2006 arriveranno altre tre avventure in studio marcate Waterson:Carthy, una più bella e intensa dell’altra: A Dark Light, Fishes & Fine Yellow Sand, Holy Heathens & The Old Green Man. E ci sarà anche un’ulteriore filiazione, da quel nome prezioso per il folk inglese: Waterdaughters, sorta di collettivo folk aperto alle collaborazioni con le figlie dei vari membri della famiglia. Prima però, e anche durante la storia della band a doppio nome, ci sono state altre belle vicende, per la matronale Norma Waterson: belle e terribili, come le storie che ormai canta da una vita, perché le storie, s’è detto, sono tutto quello che siamo.

SOLISTA
Nel 1996, finalmente, arriva un disco a suo nome, senza titolo, Norma Waterson ed è un piccolo capolavoro. Norma si concede quindi il vezzo (e l’understatement) di apparire come «solista», con il suo contralto rugginoso e sempre più sfrangiato alla tenera età di cinquantasette anni, quando ormai non si contano più le sue collaborazioni fattive a diverse stagioni del folk e del folk rock. Ovviamente, in correlazione stretta con il suo spiritaccio, è un passo spazzante, per i «puristi» del folk, e anche un lavoro memorabile. Nominato per i Mercury Music Prize: e saranno quattro ore di feroci discussioni nella giuria, per incoronare quell’album che per un soffio non ce la fa, e che ha capovolto ogni tipo di aspettativa. Perché Norma Waterson canta brani degli psichedelici Grateful Dead, il frizzante e scaltrito pop di Elvis Costello, il neo blues di Ben Harper, il neo folk di Richard Thompson, e li fa suonare come se avessero sulla schiena qualche centinaio d’anni di rifiniture. Norma Waterson ha iniziato un’altra, strepitosa fase della sua carriera: riportare le canzoni «popular», e che dunque stanno con un piede nel mercato, alle loro fonti «popolari», e quindi «folk». E viceversa, come era accaduto col folk rock.
Chi vuole ritrovare la Norma Waterson del canto senza accompagnamento delle origini dovrà attendere il Duemila, quando vengono pubblicate le intense session tutte «traditional» di Bright Shiny Morning, di qualche anno precedente. Però nel ’99 arriva lo strepitoso The Very Thought of You. Questa volta Norma divaga da par suo anche nel jazz, come a suo tempo, nel folk rock britannico, avevano fatto i Pentangle di John Renbourn. Rende da par suo Over the Rainbow e il brano che intitola, ribadisce quanto aveva fatto con un’accoppiata micidiale di brani scaturiti nei Seventies dal folk rock d’autore britannico: River Man di Nick Drake, Solid Air di John Martyn, che proprio allo sfortunato ed enigmatico cantautore suicida Nick Drake aveva dedicato quel brano. Riflessione al quadrato e al cubo, insomma, e chi vuol capire il segnale lo capisca. Ma all’inizio del disco, quasi un abominio per i puristi, lascia fluire la sua voce affaticata e provata da troppe sigarette su Love of My Life, sì, proprio quella dei Queen. Che diventa, quindi, una «folk song». Piccoli miracoli di una sciamana folk. Che si avvia verso il tramonto di una vita bella e intensa.

L’ULTIMO «DONO»
Con la figlia Eliza Carthy pubblica nel 2010 Gift: in copertina le mani della madre e della figlia che si tengono, quasi un segnale che il passaggio di testimone è vicino, anche se, per citare il titolo, nella consueta forma di un «dono», le storie della gente che passano di anello in anello nella catena della vita. Nel 2010, lo stesso anno di Gift, Norma Waterson entra in coma. Ne esce con grinta e volontà dopo quattro mesi, deve rimparare a parlare e a reggersi in piedi, e lei lo fa con un amore per la vita grande come la sua figura matriarcale.
Una vita in folk celebrata dalla Bbc inglese: che il 27 aprile 2016 le assegna il riconoscimento alla carriera per la sua vita in folk. Accanto ha Joan Armatrading. Il suo penultimo disco è, ancora una volta, assieme alla figlia: il «dono» del lavoro precedente è diventato anche il nome della band, The Gift Band, Eliza registra la voce della madre e matriarca nella casa di campagna di una vita, alla Robin Hood’s Bay nello Yorkshire. Poi la voce comincia a cedere, assieme ai polmoni sfiancati. Il resto lo fa la pandemia: non si diventa ricchi col folk, e nel lockdown Eliza Carthy deve organizzare un penoso crowdfunding perché quel che resta della famiglia non collassi economicamente. Rispondono in duemila. Ma la musica no, non se ne deve andare: e allora la combattiva ragazza col violino organizza per la madre la NormaFest, Norma deve tornare cantare un’ultima volta. Affitta gli spazi di una antica cappella metodista, e una stanzetta accanto dove Norma può riposare, tra una session e l’altra. Quando i microfoni si accendono, Norma torna nel suo regno di storie con la Gift Band. Il disco si chiamerà Anchor, l’ancora. La Regina del folk piazza i suoi consueti (ma purtroppo finali) colpi da maestra: interpreta Tom Waits, Nick Lowe, perfino gli spassosi Monty Python. E l’ultimo brano inciso si intitola We Have an Anchor. È vero, abbiamo avuto un’ancora che ha tenuto salda la nave del folk inglese, e non solo. E le ancore restano lì, a reggere la catena di storie della vita.

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