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Nora Krug, la famiglia è altrove

Nora Krug, la famiglia è altrove

Intervista La fumettista tedesca racconta il suo lavoro, «L’Era dei tiranni. Cosa ci ha insegnato il XX secolo» (Rizzoli Lizard)

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

Nel 2018 Heimat (Einaudi) ha vinto i più importanti premi internazionali relativi al libro illustrato e al genere autobiografico: è in questa intersezione di memoria e racconto per immagini che si sviluppa tutto il lavoro (di illustrazione e animazione) di Nora Krug. Ospite al «Passaggi Festival» di Fano, nella sezione dedicata al graphic novel, l’illustratrice tedesca di stanza a New York, ha presentato il suo nuovo libro.

Potremmo definire Heimat un graphic memoir, una storia personale dove racconti l’impatto dell’Olocausto e del nazismo sulla storia della tua famiglia. Nel nuovo lavoro, «L’Era dei tiranni. Cosa ci ha insegnato il XX secolo» (Rizzoli Lizard) illustri le venti lezioni dello storico statunitense Timothy Snyder. Come è avvenuto questo passaggio dalla scrittura biografica per immagini, all’illustrazione di un saggio storico già esistente?
Heimat è la storia della mia famiglia, ha un arco narrativo proprio ed è un lavoro molto emotivo ed è vero che il nuovo libro è molto diverso. È infatti la raccolta di venti lezioni su come possiamo resistere alla tirannia o alle radici della stessa. Un racconto fatto di idee, di concetti, senza arco narrativo, che mi ha imposto di operare in modo diverso. Ho conosciuto Snyder perché ha scritto un commento per la quarta di copertina di Heimat e mi ha proposto di lavorare a una versione illustrata di On Tyranny, uscito nel 2017, (pubblicato in Italia da Rizzoli quest’anno, ndr) in risposta alla vittoria elettorale di Donald Trump. Credo che abbia riconosciuto nel mio lavoro un obiettivo simile al suo, ovvero quello di confrontarsi con la storia europea del XX secolo e capire cosa possiamo imparare come individui, per preservare le nostre democrazie, e smettere di agire dando per scontato che sopravvivano. Ho lavorato a questo progetto come a una continuazione di Heimat, nonostante la loro diversa natura: l’aspetto concettuale mi ha permesso di liberare le idee, in termini di immagini, e spingermi dove con Heimat, per rimanere più vicina alla sensibilità dei lettori non avevo potuto né voluto fare. Per questo L’Era dei Tiranni è in un certo senso più sperimentale.

Il sottotitolo dell’opera è una domanda-ahimè forse retorica-Cosa ci ha insegnato il XX secolo? Narrare per immagini ha una valenza didattica? Se è così, qual è il valore aggiunto del linguaggio iconico in un testo di saggistica storica?
Quando illustro un lavoro altrui devo trovare una porta d’ingresso; ero intimidita all’inizio, ma poi ho capito che potevo lavorare come sempre e fare quello che volevo con il testo, ovviamente con il supporto dell’autore e dell’editore. Ho quindi un po’ dirottato il libro, tenendo a mente che le illustrazioni non devono tradurre le immagini, ma creare un livello separato che funzioni aldilà del testo, che viva di una poetica propria, un po’ come i testi delle canzoni in relazione alla musica. Quello iconico è uno strato aggiunto che può aggiungere, contraddire, o far riflettere sul contenuto del testo verbale. Volevo che il lettore si sentisse coinvolto in un modo nuovo rispetto alla materia storica, per lui forse già familiare. Per questo motivo credo che i libri illustrati non possano continuare ad essere percepiti come un prodotto per bambini e che possano anzi raggiungere gli adulti in un altro modo e sorprenderli. Quando pensavo a come dividere il testo, avevo chiaro che il libro non dovesse avere una foliazione maggiore dell’originale, che è breve. Ho creato un’immagine per ogni pagina, attorno alla quale ho disposto il testo; questo altera l’esperienza di lettura, rendendola forse meno immediata, ma costringe il lettore a soffermarsi, a rallentare. Timothy Snyder ha anche notato che lui si occupa di storia europea, ma è americano e che io sono europea, ma ho reso il libro più «americano» perché quando tratta di ingiustizie, ho scelto di mostrare gli schiavi afroamericani che non sono nella sua area di studio, ma che sono il simbolo di una forma di tirannia.

I materiali visivi che usi sono eterogenei, sono illustrazioni e fotografie, pastiche di oggetti ritrovati e memorabilia. Come ti documenti e da quali fonti attingi?
Per me è importantissimo ammettere che ogni cosa che utilizzo esiste in un contesto; non posso lavorare senza tener presente ciò che è stato disegnato prima e quello che verrà dopo. Ogni creazione segna un momento nel tempo. Per ogni argomento esiste potenzialmente una storia visiva. Lavorando al libro ho scoperto che quella della tirannia è una storia universale, senza tempo, qualcosa contro cui abbiamo lottato da sempre nelle diverse culture-per questo dovremmo aver imparato qualcosa- quindi in realtà posso raccogliere materiale un po’ ovunque. Visito spesso archivi e mercatini delle pulci, che sono veri e propri depositi di storia: sono luoghi dove regna la casualità ma anche molto significativi poiché trasmettono versioni personali della storia che la storiografia trascura. Raccolgo oggetti e fotografie, cercando di includere diverse provenienze proprio per dimostrare che ci sono momenti storici che accomunano ogni cultura.

Un giorno in un mercatino delle pulci nel quartiere turco di Berlino, un mercatino che non ha niente di speciale, in mezzo a un sacco di oggetti inutili ho trovato un album di un soldato tedesco, con su scritto «Ricordi». L’ho aperto e tra varie immagini della Seconda Guerra mondiale, c’erano sei foto di un’esecuzione in piazza con preti e partigiani con le mani alzate e cadaveri sullo sfondo. Ho capito che il soldato aveva documentato quest’atrocità. Volevo comprarle per la loro importanza storica, sentivo la responsabilità di doverle mostrare e ho dovuto contrattare, sentendomi anche a disagio, per l’operazione un po’ squallida. Poi sono andata alla redazione di Der Spiegel e ho parlato anche con il foto editor del New York Times per capire quale evento storico fosse immortalato nelle foto; abbiamo scoperto che si trattava di una rappresaglia: quando i nazisti invasero la Polonia, molti tedeschi che ci vivevano avevano appoggiato l’invasione e poi erano stati giustiziati dai partigiani polacchi. Quella della foto era l’immagine della ritorsione nazista e della loro esecuzione. Un evento che è stato studiato dagli storici, del quali però esistono pochissime immagini e questo dimostra l’importanza di cercare anche in luoghi informali, per riuscire a portare una testimonianza significativa. Ho usato una di queste foto nel capitolo del libro dove Snyder parla dell’invasione nazista in Polonia.

Ogni capitolo ha un titolo-precetto e una serie di regole di condotta individuale che hanno ricaduta collettiva. Quanto è importante il gesto individuale per la storia collettiva?
Una dei punti di forza del libro di Snyder è proprio questo: quando pensiamo alla storia abbiamo in mente un fenomeno collettivo ma in realtà è un’esperienza individuale, un’accumulazione di eventi privati. Per esempio, quando pensiamo alla Germania nazista spesso tralasciamo il fatto che la gente aveva una scelta, ci sono molti modi per resistere e non sempre implicano una scelta di vita o morte. Nel libro raccontiamo alcune pratiche intermedie di resistenza, alcune apparentemente insignificanti. L’esempio della vicenda di Teresa Prekerowa, che entra di nascosto nel ghetto di Varsavia per portare cibo e medicine e riesce a far fuggire una famiglia ebrea prima della deportazione, è un esempio. Lei non venne giustiziata, non fu neanche presa. Fu solo coraggiosa a resistere e divenne una testimone dell’Olocausto. Ogni decisione personale che prendiamo sul nostro stile di vita, sui nostri acquisti, ha conseguenze sulle vite di altre persone che non conosciamo o non vediamo, ma che ci sono. Probabilmente potremmo impegnarci a scegliere meglio.

Nel libro un altro concetto fondamentale è quello dell’uso sbagliato delle immagini e delle parole e di come questo possa essere strumentalizzato dal potere a fini di propaganda e di esercizio del controllo. Come hai rappresentato questo elemento considerando che è stato pubblicato dopo l’elezione di Trump?
Sì, il medium dell’illustrazione ha una lunga e tormentata storia politica; ben prima della fotografia venivano usate illustrazioni per documentare cosa stesse accadendo nel mondo e per attivare una riflessione critica. Le immagini facevano cambiare idea alle persone e rivoluzionare il modo in cui pensavamo il mondo, ma erano ovviamente anche capaci del contrario, ovvero di propagare idee negative e contribuire alla persecuzione di determinate persone. Nel libro ho disegnato l’immagine di un maiale vestito da contadino e l’ho usata per il testo dove Snyder spiega come in Russia i fattori fossero perseguitati perché ricchi. Paragonare le persone agli animali è un classico strumento di propaganda visiva. Nel Medioevo gli ebrei venivano rappresentati come maiali o a stretto contatto con essi, un leitmotiv iconografico che nei secoli è servito a isolarli; spesso queste immagini si trovavano sui bassorilievi delle chiese, quindi erano visibili a tutti. I nazisti non hanno fatto altro che recuperare questo tipo di immagine, giocando sulla memoria collettiva; le immagini sono viscerali, molto più facili da capire rispetto alle parole. Come illustratrice ho quindi delle responsabilità politiche; è interessante come nei momenti del libro dove si parla di propaganda, avessi idee su cosa mostrare, ma erano immagini molto disturbanti dell’impero ottomano e come venne trattato dai nazisti. Poi però ho pensato che l’odio religioso verso il mondo musulmano esiste ancora e che mostrando quelle immagini non avrei fatto che contribuire al messaggio. Questo è un dibattito acceso negli Stati Uniti: si possono mostrare immagini cariche di odio raziale per dimostrare che certe azioni sono sbagliate, o non dovrebbero essere mostrate? Ci sono anche politici, nei nostri paesi europei, che usano parole come maiale per descrivere i loro avversari politici e sanno assolutamente cosa stanno facendo, conoscono la storia di questo tipo di vocabolario e quindi stanno promuovendo un proseguimento di quella maniera di parlare che è pericolosissima, poiché il linguaggio è sempre l’inizio della violenza.

Questa scelta linguistica comporta un tipo di semplificazione che in tempi di analfabetismo veniva usata per raggiungere più persone possibili. L’appianamento del linguaggio visivo e verbale è un fenomeno molto comune nell’epoca delle comunicazioni immediate e dei social, che sono notoriamente luoghi anche violenti…
Molte persone nel mondo non hanno accesso non solo ai computer, ma neanche all’elettricità; altre hanno accesso parziale perché i governi censurano; altre come noi, hanno accesso e libertà totale, ma spesso sbagliano a seguire o a credere a ciò che leggono. Le persone sono confuse sulla propria identità, credo che oltre alla crisi climatica, attraversiamo anche una crisi identitaria e le persone tendono a credere a falsità o a «verità alternative», come alcuni le chiamano negli Stati Uniti. Mi trovo d’accordo con Snyder, che suggerisce che sia importante credere e aver fiducia nelle istituzioni che per molto tempo hanno svolto un ottimo lavoro, e hanno strumenti per farlo: penso alle riviste e ai quotidiani storici, le cui redazioni sono generalmente affidabili. Personalmente non capisco perché le persone facciano fatica a capire a chi credere. D’altra parte è vero che se internet è potenzialmente pericoloso per l’informazione, è anche molto utile: penso alle rivoluzioni nei paesi nordafricani, dove la rete ha fatto sì che milioni di persone si unissero e si ribellassero contro gli oppressori.

Il tema della tutela delle istituzioni mi fa pensare al bene pubblico. Forse uno degli obiettivi di queste lezioni è proprio quello di sottolineare come nell’individualismo che sembra essere la cifra del XXI secolo abbiamo perso il senso della collettività e della condivisione di certe condotte; il contatto con l’altro, il guardarsi negli occhi, la cura del pianeta, la vita attiva, l’attenzione e la curiosità sono tematiche presenti nel libro, inviti che Snyder lega alla storia del nostro XX secolo, pratiche che dovremmo recuperare.

La curiosità e la connessione sono punti essenziali: nei paesi sviluppati, il nostro livello di benessere ci fa credere che bastiamo a noi stessi. In realtà abbiamo sempre bisogno di sostenerci, come umani dipendiamo dagli altri per la nostra sopravvivenza, abbiamo bisogno degli altri. Un capitolo che porto nel cuore è quello sul contatto visivo e sulle chiacchiere, che in Germania non sono molto apprezzate, ma che a mio avviso sono importantissime per entrare in relazione e stabilire un dialogo anche tra persone diverse. In una società molto individualizzata perdiamo del tutto il senso di empatia. I piccoli rituali che abbiamo imparato nel tempo, sono molto politici e vanno difesi e preservati.

A cosa stai lavorando?
Da quando è iniziata la guerra in Ucraina ho intervistato ogni settimana due persone: uno è un giornalista nato in Russia, ma ucraino, l’altra è un’artista russa che vive a San Pietroburgo. Ho chiesto loro come si erano sentiti, come stavano, perché volevo capire che cosa fa la guerra a livello umano. Volevo mettere a confronto queste due visioni, come in un progetto di giornalismo visivo per documentare il primo anno di guerra, non in termini politici ma umani. il libro uscirà in autunno.

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