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Non una anomalia, la normalità neoliberale del Cavaliere

Non una anomalia, la normalità neoliberale del Cavaliere

Commenti Ci troviamo di fronte al sorgere di un’egemonia di tipo nuovo, quella della destra post-berlusconiana, che del berlusconismo incorpora tutti i caratteri regressivi, e ne aggiunge altri di ancor più

Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 giugno 2023

Si dice della Thatcher che considerasse il New Labour di Blair come il suo più grande successo. In maniera analoga potremmo dire che il più grande successo di Berlusconi sia stato il centro-sinistra italiano. Avere l’egemonia significa infatti avere il potere di fissare le coordinate entro le quali si svolgerà il gioco politico in un futuro prevedibile.

Un sistema egemonico è insomma tale nella misura in cui riesce a comprendere anche ciò che gli si oppone, e ciò che gli si oppone accetta a sua volta le fondamenta del sistema ed i parametri da esso prefissati. Per questo si può parlare di «età berlusconiana» per il trentennio che abbiamo alle spalle, proprio come, ad esempio, si può parlare di «età giolittiana» per il periodo intercorso tra i primi del Novecento e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale – non a caso in quegli anni Salvemini uscì dal Psi, principale forza di opposizione a Giolitti, accusando gli stessi socialisti di aver finito per accettare nella sostanza il sistema giolittiano.

In molti hanno già negli anni passati analizzato i quadri politici e discorsivi all’interno dei quali ci si è mossi in età berlusconiana, consistenti nell’aver reso senso comune – «nell’aver «sdoganato», si prese a dire a partire dagli anni Novanta – pulsioni e interessi propri delle classi dominanti e di parti consistenti del ceto medio del Paese che la Repubblica dei partiti aveva saputo tenere sotto controllo per lunghi decenni, senza però, con tutta evidenza, averne ragione definitivamente: il predominio dell’interesse privatistico su quello pubblico, col corollario della primazia dell’interesse dell’impresa rispetto a quello del lavoro, dello Stato e del territorio; i riflettori puntati sull’irruzione dell’uomo della provvidenza che si impone sulla palude partitocratica, con i soggetti politici organizzati come vittima designata di questo meccanismo; la negazione di ogni carattere programmatico della Costituzione repubblicana, derivante a sua volta da un’interpretazione in chiave «afascista» e non «antifascista» della Carta del ’48; la centralizzazione del potere esecutivo rispetto al legislativo e la sua insofferenza rispetto al giudiziario; e potremmo continuare con un lungo elenco, sul quale oramai esiste un’ampia letteratura.

Ebbene, nella sostanza l’opposizione che via via si è strutturata al berlusconismo non ha mai messo seriamente in discussione nessuno di questi capisaldi. La lotta al berlusconismo – sacrosanta per chi avesse avuto a cuore la continuità delle istituzioni repubblicane – si è trasformata in una lotta a Berlusconi, dagli esiti elettorali altalenanti e talvolta vincenti, senza la capacità di incidere nel profondo il tessuto sociale del Paese. Con un esiziale limite aggiuntivo: quello di aver insistito cioè sulla presunta «anomalia italiana» nell’analisi del fenomeno berlusconiano, ignorando quanto in realtà i quadri di riferimento del berlusconismo stessero nel medesimo lasso di tempo condizionando l’intero occidente atlantico, e di conseguenza affidando al «vincolo esterno» un ruolo salvifico rispetto a tale anomalia. Da qui l’opposizione agita sventolando le copertine dell’Economist e lo sventurato matrimonio con l’agenda ferocemente classista di Mario Monti al grido di «ce lo chiede l’Europa», pietra tombale di quella operazione bersaniana che forse avrebbe garantito una via d’uscita meno funesta dal berlusconismo stesso.

In conseguenza di questa lettura sbagliata, mentre Berlusconi governava secondo gli interessi del blocco sociale che lo sosteneva (tutt’ora determinante per le fortune della destra), il centro-sinistra prendeva voti dal proprio elettorato e poi lo sfiduciava con un’azione di governo quanto meno tentennante.

Con questo non si vuole sminuire la portata di alcune delle battaglie condotte dall’antiberlusconismo nei decenni trascorsi, da quelle per la legalità, a quelle per il pluralismo negli organi di informazione, a quella (vincente ma poi tradita, non a caso viste le premesse da cui si è partiti) contro l’abolizione dell’articolo 18, fino a quelle forse più fruttifere per i semi che hanno gettato condotte dalla nuova ondata femminista. Tuttavia se si richiamano soprattutto i limiti dell’esperienza anti-berlusconiana non è per un mero esercizio storicistico. Ci troviamo di fronte al sorgere di un’egemonia di tipo nuovo, quella della destra post-berlusconiana, che del berlusconismo incorpora tutti i caratteri regressivi, e ne aggiunge altri di ancor più inquietanti.

Ecco, di fronte a questa irruzione sarebbe bene imparare dal passato e condurre un’opposizione che non si limiti ad un ruolo ancillare in un ambito di coordinate prefissate dal nemico, ma sappia immaginare una via d’uscita radicale e prefigurare un futuro totalmente alternativo.

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