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Conte in Vietnam, non solo l’export dietro il viaggio e le orme di Enrico Letta

Conte in Vietnam, non solo l’export dietro il viaggio e le orme di Enrico LettaIl premier Conte in tribuna durante la sua visita in Vietnam

La visita del premier Conte Magnificato dal centro studi Arel, il tour è in effetti una delle poche scelte sensate del governo

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 giugno 2019

Se come sostiene una recente pubblicazione di Arel – il centro studi fondato da Nino Andreatta – il Vietnam è «un laboratorio di successo» dove testare quel che resta della vivacità imprenditoriale italiana, il viaggio di Conte potrebbe essere una delle poche scelte sensate di un’amministrazione ormai nota solo per i litigi, la disumanità e i voltafaccia.

I dati lo confermano: le nostre esportazioni in Vietnam hanno registrato nel 2018, stima la Farnesina, un aumento dell’11,16%, per un totale di 1,3 miliardi di euro, il che fa del Belpaese il secondo esportatore europeo dopo la Germania. Le oltre 100 aziende italiane hanno investito lì quasi 350 milioni di euro con una novantina di progetti, specie nel settore manifatturiero ma anche in quello dei macchinari, delle infrastrutture e delle rinnovabili. Il Vietnam ha diversi vantaggi: una legislazione per l’estero con scarsi «lacciuoli», sconti per chi investe e una manodopera a basso costo che ha tra l’altro la grande qualità di non protestare.

È un piccolo paradiso dove scalpitano giapponesi e tedeschi ma soprattutto i vecchi storici nemici: Stati Uniti e Cina. I vietnamiti (come cinesi e americani) sono pragmatici e la memorie delle guerre (con gli uni e con gli altri) è roba che si può dimenticare in un Paese per forza giovane dove l’eredità della “guerra americana”- come la chiamano qui – si vede non solo nel lascito di diossina dell’agente Orange ma anche in una popolazione giovane (un terzo dei suoi 90 milioni è sotto i trent’anni) che con la nascita delle riforme del libero mercato iniziate nel 1986 (Doi Moi) ha tradotto in vietnamita il capitalismo autoritario inaugurato da Deng con lo sdoganamento della possibilità – «gloriosa» – di arricchirsi.

L’Italia ha capito un po’ di ritardo che il secolo dell’Asia era già iniziato da un pezzo, che la lontananza geografica si sarebbe sempre più ridotta e che quegli straccioni sarebbero diventate tigri pimpanti. Abbiamo un’ambasciata ad Hanoi e a Bangkok. Non a Phnom Penh e Vientiane. Ma il povero Conte, con la controversa firma degli accordi con Pechino e ora col suo viaggio vietnamita, ha centrato uno dei pochi obiettivi di un governo che sarà ricordato soprattutto per i numerosi buchi nell’acqua. Sfrutta con saggezza le poche scelte intelligenti di politica asiatica tra cui il riconoscimento del Vietnam del Nord nel 1973 (col solo voto contrario – guarda guarda – del Msi), dopo gli accordi di Parigi ma due anni prima della vera e propria fine della guerra. Un gesto apprezzato (spinto da comunisti e socialisti) perché fino ad allora parlavamo solo col governo golpista di Saigon.

Quell’apertura – che si riflette ancora oggi sui rapporti tra i due Paesi – aveva anche altri precedenti: le imponenti manifestazioni a sostegno del Vietnam (i cui striscioni campeggiano nel museo della guerra di Città Ho Chi Minh) e quel che fecero i camalli genovesi che – lo ricordava il manifesto qualche giorno fa – bloccarono l’attracco delle navi americane e, ancora, ne inviarono una – l’ “Australe” – carica di viveri e medicinali al porto vietnamita di Hai Phong. Certe cose non si dimenticano.

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