Europa

Non solo fiscal compact, i buoni obiettivi dell’Unione

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Politiche L’Ue non è un monolite: la crisi economica ha seminato perplessità nella burocrazia continentale. E i richiami sociali non mancano. Entro il 2020 la povertà dovrebbe essere abbattuta. Ma per ora è in aumento

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 aprile 2014

L’Unione europea non è solo patto di stabilità, stretta fiscale, deflazione, compressione dei salari. Una dialettica interna esiste: Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia, non è Ebsco, il Consiglio dei ministri del welfare; i vari direttorati della Commissione non sempre sono appiattiti sulle posizioni di Ecofin, il ministero europeo per l’economia; nel Parlamento si confrontano diverse visioni del mondo e nello stesso Consiglio si scontrano, anche se generalmente in punta di fioretto, oltre agli interessi nazionali, le differenti visioni politiche prevalenti nei paesi. La crisi evidente del pensiero unico liberista, pur dogmaticamente riaffermato a livello comunitario, ha seminato dubbi e perplessità nella stessa burocrazia europea. Nel welfare, poi, le politiche dominanti devono ancora convivere con una visione forte volta all’inclusione. Certo, spesso i richiami sociali servono solo a dare un aspetto moralmente accettabile ai documenti Ue, mentre continuano la privatizzazione e la riduzione del welfare pubblico. Ciononostante, qualche elemento in positivo va segnalato.
In primo luogo, la Carta dei diritti fondamentali della Ue, che ha uno status pari a quello dei trattati istitutivi, riconosce il diritto all’istruzione, alla non discriminazione, alla piena partecipazione dei diversamente abili, la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto alla previdenza sociale, all’assistenza sociale e abitativa, a un elevato livello di tutela della salute. Certo, la Carta rinvia alle legislazioni nazionali per il grado di effettiva tutela offerto, ma essa definisce un insieme di diritti che non possono essere formalmente disattesi dai paesi e dall’Unione.
È importante anche che nel programma Europa2020, che indica le priorità strategiche della Ue nel corrente decennio, sia stato ricompreso un obiettivo sociale: la riduzione di 20 milioni della popolazione a rischio di povertà ed emarginazione. Certo, gli indicatori di Europa2020 non hanno la forza cogente di quelli di bilancio, e infatti la disoccupazione è aumentata straordinariamente e la popolazione a rischio di povertà, invece di diminuire, è cresciuta di 8,7 milioni dal 2009, proprio a causa delle politiche restrittive imposte ai paesi. Ma essi svelano la contraddizione fra le politiche e gli obiettivi che la stessa Europa si è data.
Anche a livello macroeconomico può ritrovarsi una visione meno univoca di quanto generalmente non appaia. L’annuale Rapporto congiunto sull’occupazione di Commissione e Consiglio, il documento per il semestre europeo elaborato dagli organi più lavoristi della Ue, segnala l’aumento della diseguaglianza e del rischio di povertà, insieme alla crescente difficoltà per molti ad accedere alle cure sanitarie. Lamenta poi non solo la riduzione della spesa sociale, avvenuta «malgrado l’ulteriore peggioramento delle condizioni sociali ed economiche», ma anche il calo dei redditi reali delle famiglie e la riduzione della quota distributiva del lavoro, mentre «il conseguente aumento dei margini di profitto non si è accompagnato ad una crescita degli investimenti». Certo, si continuano ad invocare politiche di offerta volte a migliorare la competitività e la flessibilità, ma si ritiene anche che «la recente crescita dei salari in paesi caratterizzati da surplus commerciale può contribuire a rafforzare la domanda aggregata».
Come detto, molta parte di tutto ciò riflette il tentativo di ammantare di buonismo il perseguimento di politiche che vanno in direzione diametralmente opposta. Tuttavia, il monolite delle istituzioni europee è più fragile di quanto non appaia e ciò rende possibile costruire utili alleanze per una radicale inversione di rotta, anche se il risultato non è scontato in un’Europa che il fanatismo liberista ha forse spinto oltre il punto di non ritorno.

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