«Non mi sento più la persona migliore per questo ruolo». Si dimette il premier irlandese Leo Varadkar
Irlanda Pesa lo schiaffo del referendum costituzionale. Tra un anno le elezioni: favorito il Sinn Fein
Irlanda Pesa lo schiaffo del referendum costituzionale. Tra un anno le elezioni: favorito il Sinn Fein
«Dopo un’attenta considerazione ed esame di coscienza, non mi sento più il soggetto migliore per questo ruolo». In questa laconica e solo in parte sibillina formula, il quarantacinquenne Leo Varadkar, dal 2017 primo premier dell’Eire indo-irlandese e apertamente gay, ha condensato ieri la sua decisione di dimettersi. Varadkar, leader del partito di centrodestra Fine Gael e alla guida del paese forte di una coalizione tripartita con verdi e l’altro partito omologo, Fianna Fail, con il cui leader, Micheal Martin divideva il ruolo, era appena tornato da Washington dove aveva festeggiato, come da tradizione, la ricorrenza di S. Patrizio con il presidente americano Joe Biden, notoriamente a sua volta attaccato alle proprie radici gaeliche.
«Non c’è mai un momento giusto per rassegnare le dimissioni» ha aggiunto visibilmente emozionato ma, in buona sostanza, non si sente più in grado di sostenere un ruolo di simile peso/importanza. Mollerà istantaneamente la presidenza del partito, il premierato quando sarà stato trovato un altro leader; auspicabilmente entro il sei aprile, in modo da poter installare il suo successore dopo la pausa pasquale. Il paese si avvia comunque verso il doppio appuntamento elettorale delle amministrative, fra meno di dieci settimane, e a meno di un anno dalle politiche, che sembrerebbero peraltro, sondaggi alla mano, inclini a dare il potere per la prima volta al Sinn Fein, l’emanazione politica dell’Ira.
Varadkar ha inoltre dichiarato di non avere un piano definito su cosa fare dopo il passo indietro. Le ragioni sarebbero politiche e personali ma «soprattutto politiche». Di quest’ultima ammissione non è proprio difficile scorgere la causa nel ceffone referendario appena assestatogli dai connazionali. Che hanno votato no all’ultima recentissima consultazione, quella che si riprometteva di emendare la costituzione in senso più moderno e inclusivo nei suoi due articoli facenti riferimento alla famiglia e alle cure familiari, permettendo di estendere la prima al di là delle coppie sposate mentre disincagliava finalmente la figura femminile dalle seconde. Il tutto dopo essersi dimostrati – sempre i suoi connazionali – capaci di disincrostare l’Irlanda dalla propria identità cattoreazionaria a suon di referendum – tra gli altri, la legalizzazione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso nel 2015 e quello con cui si è finalmente data l’aborto nel 2018, in entrambi i quali lo stesso Varadkar aveva giocato un ruolo preponderante.
È dunque probabile che le polemiche susseguitesi alla cocente sconfitta – polarizzate attorno a quelle che stigmatizzavano la scarsa efficacia della campagna elettorale da una parte e quelle che lo accusavano di aver speso energie preziose in un cambiamento poco più che cosmetico proprio mentre tirava ben più sostanzialmente i remi in barca quanto al dovere statuale di supportare le cure familiari agli anziani e ai disabili – ne abbiano irrimediabilmente minato l’autorità in seno al partito. Un brusco risveglio riflesso nella peggiore sconfitta di un governo irlandese a un referendum.
Si tratta in ogni caso di un forfait tellurico per gli equilibri politici del paese, la resa di una figura che sembrava abbastanza inarrestabile, non solo per via del succitato protagonismo referendario, ma anche per il modo equilibrato e costruttivo con cui aveva gestito i rapporti tra Bruxelles e una Gran Bretagna in preda agli spasmi euroscettici di Brexit. Secondo i sempre insostituibili allibratori, tra i più papabili a succedergli ora figurerebbe il ministro dell’università Simon Harris.
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