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Non è tutto «Golden» ciò che luccica

Non è tutto «Golden» ciò che luccica – Reuters

Viene in mente una vecchia barzelletta di Gino Bramieri. Un signore si era buttato dall’aereo con il paracadute e  la promessa di avere l’esemplare indosso, un altro di emergenza e […]

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 26 agosto 2017

Viene in mente una vecchia barzelletta di Gino Bramieri. Un signore si era buttato dall’aereo con il paracadute e  la promessa di avere l’esemplare indosso, un altro di emergenza e un’auto ad attenderlo a terra.

Dopo aver constatato che né il primo né il secondo paracadute si erano aperti, trepidante chiedeva: «Ma almeno la macchina c’è?».

Ecco, il «Golden power» è il marchingegno introdotto dalla legge n.56 del maggio 2012 per tutelare gli interessi nazionali nei settori sensibili per la sicurezza e in quelli strategici. Buona cosa, ma che rischia di fare la fine della macchina della barzelletta.

Arrivano i nostri, quando ormai è troppo tardi.

È il caso di queste ore: la presenza con il 23,94% di Vivendi in Tim-Telecom configura un vero controllo, o no? L’esercizio del potere speciale, che prima si chiamava «Golden share», ma quando lo stato aveva comunque un pezzetto di proprietà azionaria, è una misura difensiva dal peso relativo. Comunque, bene ha fatto (finalmente) il governo a istruire positivamente, attraverso un apposito comitato tecnico di palazzo Chigi riunitosi ancora ieri, una pratica almeno simbolicamente importante.

Anche perché l’intera vicenda rischiava di finire in malo modo. Non solo con la resa a un gruppo francese capitanato da Bolloré, grande amico di Sarkozy e non particolarmente vicino alla Francia di Macron, e per di più abile uomo di finanza piuttosto che di reti e contenuti. Ma con l’addio alla speranza di rivedere almeno in parte la linea fallimentare della peggiore privatizzazione italiana. Insomma, se il ricorso al «Golden power» è l’inizio di un ripensamento e non una mera ripicca dopo lo stop a Fincantieri, ben venga.

Naturalmente, la vicenda, posto che il presidente del consiglio e l’esecutivo scelgano infine di imboccare la strada auspicata, è complessa e tortuosa. È da dimostrare, infatti, dove sta esattamente il «grave pregiudizio» evocato dalla legge, peraltro in un quadro di liberalizzazione e nei confronti delle normative comunitarie. Si possono presumere passaggi su passaggi, in uno slalom tra l’una e l’altra autorità. Tuttavia, il caso non è già risolto nei fatti come la memoria prodotta dal presidente di Tim-Telecom Arnaud de Puyfontaine vorrebbe far intendere.

Sarà in salita l’impegno del pur prestigioso gruppo di avvocati messo al lavoro da Vivendi, in quanto la normativa sulle fattispecie di controllo e collegamento è, almeno formalmente, a maglie meno larghe del passato. Il citato de Puyfontaine, di casato nobiliare e forse avvezzo ai modi cerimoniosi del censo piuttosto che al clima da football americano del mercato italiano dei media, ha dichiarato nel consiglio di fine luglio che il suo gruppo dirige e coordina la società. Del resto, a Flavio Cattaneo è stato preferito Amos Genish, proprio su indicazione francese. E qui ci vorrebbe un principe del foro alla Charles Laughton di «Testimone d’accusa», il noto capolavoro di Billy Wilder.

Staremo a vedere. Qualche domanda si affolla subito nella mente. Il «Golden power» riguarderà solo gli aspetti di sicurezza di Telecom Sparkle (collegamenti e infrastrutture), ovvero la rete nel suo complesso? Quale sarà la gradazione dell’intervento?

Infine, un cattivo pensiero. Il sottosegretario Giacomelli, in una recente intervista a La Stampa ha auspicato un intreccio tra Tim-Telecom e Mediaset. A parte l’inopportunità di tale dichiarazione da parte di chi dovrebbe essere «terzo», viene il dubbio che in qualche dove si stia ragionando sulla riacquisizione della rete da parte della sfera pubblica, pagandola lautamente ai francesi che aprirebbero magari le porte al gruppo di Berlusconi, con tanto di red carpet. Oltre tutto, in nome delle regole.

«Una carezza in un pugno», per dirla con Celentano.

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