«Non dateci uno Stato fallito, noi palestinesi vogliamo l’uguaglianza»
Terra compromessa intervista a Riya al-Sanah, del movimento femminista Tal'at: «I palestinesi, ovunque si trovino, sono vittime dello stesso progetto coloniale e di espropriazione. La liberazione non può essere slegata da quella delle sue donne. Solo così potremo avere una Palestina che non sia solo democratica ma anche giusta»
Terra compromessa intervista a Riya al-Sanah, del movimento femminista Tal'at: «I palestinesi, ovunque si trovino, sono vittime dello stesso progetto coloniale e di espropriazione. La liberazione non può essere slegata da quella delle sue donne. Solo così potremo avere una Palestina che non sia solo democratica ma anche giusta»
Una vittima dietro l’altra, di violenze solo apparentemente diverse: in strada per mano dei soldati israeliani sono morti nelle ultime settimane prima Iyad Hallaq a Gerusalemme, poi Ahmed Erekat in Cisgiordania. Nelle case, gli abusi sulle donne: l’ultimo femminicidio a Gaza a fine maggio, la 20enne Madeleine Jarabia. Violenze che derivano entrambe da un sistema patriarcale dai due volti, quello dell’occupazione militare e coloniale e quello di una parte di società palestinese conservatrice e maschilista.
Contro entrambi da mesi scendono in piazza le donne del movimento femminista e anti-coloniale Tal’at. Abbiamo raggiunto una di loro, Riya al-Sanah.
La vostra ultima protesta, il 9 giugno, è scaturita dall’uccisione di Iyad Hallaq. Qual è il ruolo di un movimento come il vostro in una simile lotta?
La manifestazione è stata indetta dopo l’omicidio di Iyad, ma non ha riguardato solo lui. I palestinesi, ovunque si trovino, nei territori del ’48 (l’attuale Stato di Israele, ndr) o del ’67 (i Territori occupati), sono colpiti dallo stesso progetto coloniale e dallo stesso sistema di oppressione e uccisioni sistematiche. La nostra era la risposta alla narrativa predominante: i palestinesi in quanto popolo sono costantemente target del progetto coloniale israeliano. È successo di recente ad Haifa, a Shadi, e in Naqab, ad Osama. E poi Erekat al checkpoint “Container”. La manifestazione voleva collegare queste realtà e l’oppressione che affrontiamo ogni giorno da parte di un sistema di violenza di tipo razziale. È stata una risposta anche al silenzio delle fazioni politiche, al progetto fallito di Stato palestinese voluto dall’Anp in Cisgiordania, che non tiene conto della volontà del popolo perché nega che la questione palestinese sia unica e non frammentata. È quello che affrontiamo in ’48, le nostre pratiche politiche non sono diverse dalle altre enclavi.
Come questa presa di posizione anti-coloniale si lega alla natura femminista di Tal’at?
Tal’at è un movimento politico femminista. È importante per noi essere attivamente coinvolte in questioni storicamente non separabili, quelle politiche e sociali. Le questioni che affrontiamo come donne sono legate alla realtà politica. Rigettiamo l’idea che il femminismo sia limitato a un ambito specifico, che la violenza contro le donne sia separata dalla questione politica. Tal’at è un movimento che intende la lotta per la liberazione anche come lotta sociale di tutti i palestinesi, ovunque si trovino.
In tale chiave qual è il vostro approccio verso il piano di annessione israeliano?
Noi non ci limitiamo alla questione nazionale, ma ci muoviamo su quella popolare, di eguaglianza sociale, economica e politica. Non è un discorso legato allo Stato, ma all’uguaglianza e all’equità. Il nostro discorso femminista è il cuore di un movimento che ha chiare aspirazioni: vogliamo una Palestina giusta per ogni membro della società, quale sia genere, razza o religione o condizione economica. L’annessione è parte di un processo di impossessamento e trasferimento forzato in tutta la Palestina storica. Ogni attività israeliana di espropriazione della terra e delle risorse palestinesi va vista nel suo insieme, ogni tentativo di chiuderci in enclavi sempre più piccole. È un processo che va dal Naqab alla Valle del Giordano. È necessario rispondere all’annessione in tutte le sue forme. Da questo punto di vista la risposta della leadership palestinese è debole. I partiti politici continuano sul percorso dello Stato e non combattono la frammentazione della Palestina storica.
L’ultima vittima di femminicidio in Palestina è stata Madelaine Jarabia. Registrate un aumento nelle violenze?
Nel 2019 c’è stato un aumento delle violenze contro le donne in Palestina e nel mondo. Sono aumentate con l’impoverimento, la repressione interna, lo sfruttamento economico e sociale. In questo la Palestina è parte di un processo globale. Il movimento è nato dopo l’uccisione di Yara Ayoub ad al Jish. Poi la morte di Israa Ghrayeb a Beit Sahour è stata catalizzatore dell’avvio delle attività. Non vediamo questa situazione separata dalla realtà politica: l’oppressione delle donne è legata alla realtà di colonizzazione in cui viviamo. Il nostro obiettivo era dire che le due cose non sono separate e non vanno separate nel discorso politico. Tutte le donne in Palestina vivono una forma diversa di oppressione. C’è una cultura del silenzio e noi accendiamo una luce, integrandola in quella più ampia della liberazione nazionale. La liberazione del popolo non può essere slegata da quella delle donne. La nostra capacità di affrontare questa realtà dirà molto del nostro futuro di popolo. Non si può avere una nazione libera senza la liberazione delle donne e di ogni settore della società. Solo così avremo una Palestina che non sia solo democratica ma anche giusta.
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