Economia

Non ci sono più le classi sociali di una volta

Non ci sono più le classi sociali di una volta/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/11/26/scuola

Italia 2017 Rapporto annuale Istat: la relazione tra l’appartenenza di classe e l’identità sociale si è sfaccettata. Operai e borghesi sono classi esplose nella crisi. La zona grigia dove si intrecciano la precarizzazione degli uni e la proletarizzazione degli altri coinvolge ugualmente il lavoro autonomo freelance e ordinistico. Il presidente Istat Alleva: «La ripresa, a causa dell’intensità insufficiente della crescita economica, stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione». E' record di precariato e disuguaglianze, mentre crollano le nascite

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 18 maggio 2017

Dieci anni di crisi hanno frammentato la classe operaia e la classe media e modificato il senso dell’appartenenza sociale. Il rapporto annuale dell’Istat, presentato ieri alla Camera dal presidente Giorgio Alleva, sostiene che la classe operaia ha perso il suo connotato univoco, mentre la borghesia si distribuisce su più gruppi sociali. La relazione tra l’appartenenza di classe e l’identità sociale si è sfaccettata e il reddito da lavoro non basta per definire capacità e disponibilità omogenee all’interno delle stesse classi sociali tradizionali.

Quinto stato

LA PRINCIPALE CAUSA di questa «esplosione» dei confini tra le classi ereditati dal Novecento è la «precarizzazione delle forme contrattuali» e l’aumento delle «diseguaglianze sociali» sostiene l’Istat. Venti anni di destrutturazione del mercato del lavoro iniziata nel 1997 con il «pacchetto Treu» del primo governo Prodi e terminata (al momento) con il Jobs Act di Renzi entrato in vigore il 7 marzo 2015 hanno portato a una trasformazione radicale della composizione sociale: oggi non basta essere operai per appartenere alla classe operaia e non basta essere impiegati o occupati per essere «borghesi». Nella posizione della classe operaia oggi si ritrovano quelli che l’Istituto nazionale di statistica definisce «giovani blue-collar», ovvero precari del terziario più o meno avanzato. Un settore che all’inizio della trasformazione produttiva in senso post-fordista – negli anni Novanta – sembrava essere una terra promessa. E per anni si è fantasticato sulle “classi creative”, o altri ritrovati sociologici, che l’avrebbero popolato. Dopo quasi un lustro il rapporto dell’Istat ne restituisce un’immagine più realistica: il terziario avanzato si è trasformato in un «sommerso post-terziario» dove il lavoro intermittente è accompagnato da un «sommerso dei redditi» dove proliferano figure labili e provvisorie, che vivono sulla soglia tra formazione e lavoro, tra precariato e impieghi gratuiti.

NELLA STRAGRANDE MAGGIORANZA
si tratta di under 49 che lavorano con contratto a tempo determinato o con la partita Iva, svolgono attività discontinue nel pubblico o nel privato, hanno anche creato famiglie più o meno stabili. Il loro reddito è ben al di sotto del ceto medio delle professioni o impiegatizio. Lo stesso discorso vale per il ceto medio all’interno del quale esistono redditi e occupazioni più vicine alla condizione di un nuovo proletariato che a quelle più tradizionali che attribuiva alla «borghesia» il ruolo della «classe dell’innovazione sociale», così è scritto nel secondo capitolo del rapporto. La zona grigia dove si intrecciano la precarizzazione degli operai e la proletarizzazione del ceto medio coinvolge ugualmente il lavoro autonomo freelance e ordinistico. Questa condizione definita – «Quinto stato» o «precariato come classe esplosiva» (Guy Standing), va inoltre analizzata alla luce della crescita della povertà assoluta: 4,6 milioni di persone e della povertà relativa (8,3 milioni) in cui rientrano alcune delle categorie considerate nel rapporto. Nella piramide sociale le famiglie più svantaggiate sono quelle straniere (4,7 milioni di persone), la fascia più benestante è composta da 12,2 milioni catalogate come «famiglie di impiegati».

Apolidi

FUORI DA QUESTO SCHEMA, risultato di un’evoluzione di quello approntato da Paolo Sylos Labini in un celebre volume sulle classi sociali nel 1974, emerge un settore “apolide”. Nel 2016 l’Istat ha contato circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro. Parliamo di milioni di persone che non risultano, almeno agli occhi delle statistiche ufficiali, né occupati né pensionati da lavoro. La percentuale più alta si registra nel Mezzogiorno (22,2%) Sono definiti nuclei «jobless» dove si va avanti grazie a rendite diverse, affitti o aiuti sociali. Rispetto al 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila. Tutte le classificazioni sono limitate e, spesso, macchinose. Quelle dell’Istat non fanno eccezione. Ma possono essere lette in senso trasversale, come una spia della complessità del divenire delle classi nella crisi. In questo caso, nella stessa fascia, si trovano evidentemente persone che possono vivere di rendita (o affittano appartamenti su Airbnb) e persone che vivono con uno o più sussidi. La categoria potrebbe essere fallace, ma l’indistinguibilità tra uno stile di vita da rentier e quello da poverissimo dice molto dello sconfinamento avvenuto e della realtà sociale in cui siamo immersi.

Boom di precariato

DATI IMPRESSIONANTI che parlano di un impoverimento di massa e dell’affermazione di una nuova realtà: il lavoro povero che non basta per arrivare a fine mese è insufficiente per accumulare una pensione e non basta per pagarsi una visita medica specialistica. Uno su dieci rinuncia. A Sud è record: rinuncia il 10% della popolazione. Crisi dei redditi, mancanza di prospettive spiegano anche il crollo delle nascite: «Nel 2016 abbiamo superato il record negativo che non si registrava dalla metà del 500» ha detto Alleva.

L’OCCUPAZIONE CRESCE nei settori meno qualificati e aumenta il lavoro intermittente. Quello permanente a tempo parziale è stato l’unica forma di lavoro a crescere nella crisi (+789 mila dal 2008, +101 mila nell’ultimo anno). Dal 2008 i precari sono aumentati di quasi un milione (+29,3%), arrivando nel 2016 a un totale di quasi 4,3 milioni di persone. Quanto al tasso di disoccupazione è diminuito solo lievemente a livello nazionale (11,7% da 11,9% del 2015) ma è aumentato di due decimi nelle regioni meridionali e insulari (19,6%). Le retribuzioni contrattuali per dipendente sono aumentate dello 0,6% nel 2016, in ulteriore rallentamento rispetto all’anno precedente (+1,2%).

SI E’ AFFERMATA inoltre un’asimmetria generazionale tra gli over 50 che hanno un lavoro vero e proprio (effetto Jobs Act combinato con la riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile) e i «giovani adulti» tra i 24 e i 49 anni. Questa è la fascia anagrafica più precarizzata. Di solito è considerata la più «produttiva». In realtà è la prima generazione che ha sperimentato, sulla propria pelle, la violenza della ristrutturazione capitalista che ha modificato anche la struttura sociale italiana. Accanto, o nel mezzo, ci sono i «Neet», i «giovani che non studiano né lavorano» fino ai 29 anni: nel 2016 sono scesi a 2,2 milioni, per effetto dei trucchi statistici che mascherano la disoccupazione reale la formazione professionale o tirocini con Garanzia giovani. E tuttavia i numeri sono così imponenti da rendere evidente l’anomalia italiana; l’incidenza dei «Neet» è del 24,3%, la più elevata in Europa dove la media è al 14,2%. Uno degli effetti più visibili di questa situazione è che sette giovani under 35 su dieci vivono nella famiglia di origine per mancanza di lavoro o perché guadagnano troppo poco per conquistarsi un’indipendenza.

«Degiovanimento»

I GIOVANI si trovano al centro di un duplice processo. Quello sociale dell’esplosione delle classi sociali tradizionali e quello demografico. Per l’Istat l’Italia sta vivendo un «degiovanimento», ovvero il calo delle generazioni dei giovani sulla popolazione complessiva. «Analizzando la struttura per età stimata al primo gennaio 2017, si nota la forte riduzione dei contingenti delle generazioni più giovani, praticamente la metà delle generazioni nate nel periodo del baby boom». Siamo «uno dei Paesi con il più basso peso delle nuove generazioni». Nell’ultimo decennio, dal 2008 al 2017, la popolazione residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di circa 1,1 milioni. Attenua questa dinamica solo «il contributo positivo dei cittadini stranieri».

«IN UN PAESE FRAMMENTATO – sostiene la Cgil in una nota – si privilegia l’austerità e la svalutazione competitiva del lavoro. Serve un piano straordinario per il lavoro». «Questo è il fallimento delle politiche degli ultimi governi, quello di Renzi e di Gentiloni, ma anche quelli prima» sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) che «interventi pubblici e redistribuzione della ricchezza. Il movimento Cinque Stelle rilancia il «reddito di cittadinanza» (in realtà è un «reddito minimo»). Tutte le fiches dell’esecutivo sono oggi puntate sulla ripresa lillipuziana che non produce occupazione fissa [Jobless recovery]. Ieri, il ministro dell’Economia Padoan si è detto soddisfatto della crescita dello 0,2% del Pil nel primo trimestre 2017. Rispetto al 2016 la variazione è dello 0,8%. «È in linea con le previsioni del governo». Ciò che Padoan ha omesso di dire è che solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia. «La crescita è insufficiente – ha concluso Alleva – e stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento