Non chiamiamoli Governatori, e andiamo al sodo
In Italia, come forse si dovrebbe sapere, non esistono “governatori” a capo delle Regioni, ma “presidenti” delle Giunte regionali. Eppure il termine è entrato così comunemente nell’uso – politico e […]
In Italia, come forse si dovrebbe sapere, non esistono “governatori” a capo delle Regioni, ma “presidenti” delle Giunte regionali. Eppure il termine è entrato così comunemente nell’uso – politico e […]
In Italia, come forse si dovrebbe sapere, non esistono “governatori” a capo delle Regioni, ma “presidenti” delle Giunte regionali. Eppure il termine è entrato così comunemente nell’uso – politico e mediatico – che persino una delle massime autorità istituzionali del Paese, il Presidente del Consiglio dei ministri, in una lettera “ai cittadini” del Veneto e della Lombardia (pubblicata dal Corriere della Sera) si è rivolto ai presidenti di quelle Regioni chiamandoli “governatori”.
Un piccolo ma significativo sintomo della dimensione fantasiosa che assume la politica italiana persino quando affronta problemi (che dovrebbero essere) seri come l’assetto dello Stato.
Perché “governatore” piace più di “presidente”?
Il pre-sidente è colui che “siede prima” ma in un consesso di pari. Il “governatore” in genere dispone di un potere esecutivo più forte e personale. Ma, paradossalmente, spesso lo esercita non per investitura democratica, ma per delega di un governo centrale, o in strutture di tipo tecnico e militare (i governatori delle province degli imperi, quelli delle banche centrali ecc.). Negli Usa sono capi degli Stati di una nazione federale. Ma non risulta che l’Italia sia uno stato federale: di “federalismo” si è parlato fin troppo, con risultati scarsi e per alcuni versi – vedi la riforma del titolo V voluta dal centrosinistra nel 2001 – controproducenti.
L’ultimo atto è lo scontro aperto oggi sulla cosiddetta “autonomia differenziata”. Mi sembra – lo dico cautamente, rimandando a ciò che con maggiore competenza ne scrive su queste pagine Massimo Villone – un nuovo garbuglio, nel quale si deve tenere conto del voto dei cittadini nei referendum locali, di quanto è stato contrattato – in modo singolare e semisegreto – tra governo e alcuni presidenti regionali, ma bisogna poi rispettare il dettato costituzionale sulla forma unitaria dello Stato e sugli uguali diritti dei cittadini.
L’irruente cavalcata di alcuni “governatori” per conquistare autonomia e risorse – viene in mente Agilulfo, il cavaliere inesistente di Calvino: una luccicante armatura contente il vuoto – rischia di concludersi ancora una volta in nulla, o tutt’al più in una crisi di governo. (Ex malo bonum? Ne dubiterei…).
Vedo però anche un altro aspetto. Chi si oppone all’idea dell’”autonomia differenziata”, per quanto se ne sa finora, ha molte buone ragioni. Ma non dovrebbe essere in grado di avanzare altre proposte per affrontare problemi che mi sembrano reali?
Il regionalismo italiano non funziona bene. Le riforme fatte o abortite della seconda parte della Costituzione hanno peggiorato le cose e inabissato la qualità della discussione. Restano cambiamenti a metà – con inefficienze e disagi – come quelli decisi per le Province. Soprattutto la vera questione delle questioni di ciò che non funziona dello Stato italiano, il divario tra il Sud e il Nord, sembra del tutto rimossa dal confronto pubblico e dalla cultura (?) delle forze politiche.
Mi ha colpito che in un dialogo sul Sud dimenticato tra due economisti (Angelo Lepore e Nicola Rossi su la Lettura del Corriere della Sera del 14 luglio) uno dei pochi giudizi condivisi fosse sul migliore risultato della vecchia Cassa del Mezzogiorno! E non perché distribuisse maggiori risorse (erano meno – dicono – delle attuali), ma perché operava su progetti concordati ma con autonomia e con competenza. Dopo l’istituzione delle Regioni le cose sarebbero solo peggiorate.
Di tutto ciò non bisognerebbe ragionare seriamente da qualche parte?
Magari invitando anche i “presidenti” – tutti – delle Regioni…
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