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Non c’è crisi per l’Italia militare nella Nato

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L'arte della guerra La rubrica settimanale a cura di Manlio Dinucci

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 febbraio 2021

Mentre l’Italia è paralizzata dalla «crisi economica che la pandemia ha scatenato» (come la definisce Draghi nel discorso programmatico), c’è un settore che non ne risente ma anzi è in pieno sviluppo: quello militare nella Nato.

Il 17-18 febbraio, nel momento in cui Senato e Camera votavano la fiducia al Governo Draghi, il riconfermato ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) già partecipava al Consiglio Nord Atlantico, il primo con la presenza della nuova amministrazione Biden.

All’ordine del giorno l’ulteriore aumento della spesa militare.

Il 2021, ha sottolineato il segretario generale della Nato Stoltenberg, sarà il settimo anno consecutivo di aumento della spesa militare da parte degli Alleati europei, che l’hanno accresciuta di 190 miliardi di dollari rispetto al 2014.

Usa e Nato chiedono però molto di più. Il ministro Guerini ha confermato l’impegno dell’Italia ad aumentare la spesa militare (in termini reali) da 26 a 36 miliardi di euro annui, aggiungendo agli stanziamenti della Difesa quelli destinati a fini militari dal Ministero dello sviluppo economico: 30 miliardi più 25 richiesti dal Recovery Fund. Il tutto, ovviamente, con denaro pubblico.

L’Italia si è impegnata, nella Nato, a destinare almeno il 20% della spesa militare all’acquisto di nuovi armamenti.

Per questo, appena entrato in carica, il ministro Guerini ha firmato il 19 febbraio un nuovo accordo di 13 paesi Nato più la Finlandia, definito Air Battle Decisive Munition, per l’acquisto congiunto di «missili, razzi e bombe che hanno un effetto decisivo nella battaglia aerea».

Con tale formula, simile a quella di un gruppo di acquisto solidale (non però di ortaggi ma di missili), si realizzano risparmi che la Nato afferma essere del 15-20% senza però dire a quanto ammonti la spesa. I missili e le bombe di nuova generazione, che l’Italia sta acquistando, serviranno ad armare anche i caccia F-35B della Lockheed Martin, imbarcati sulla portaerei Cavour, arrivata il 13 febbraio nella base Usa di Norvolk (Virginia): qui resterà fino ad aprile acquisendo la certificazione per operare con questi aerei.

L’Italia, ha annunciato orgogliosamente il ministro Guerini, sarà uno dei pochi paesi al mondo – insieme a Stati uniti, Gran Bretagna e Giappone – ad avere una portaerei con caccia di quinta generazione.

In tal modo l’Italia, come sottolinea il premier Mario Draghi, rafforzerà il suo ruolo di «protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori», accrescendo in particolare «la nostra proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa».

Nel «Mediterraneo allargato» – che nella geografia Nato si estende dall’Atlantico al Mar Nero e a sud fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano – opera da Sigonella, con droni AGS RQ-4D forniti dagli Usa, la Forza Nato di «sorveglianza terrestre».

È divenuta operativa il 15 febbraio: lo ha annunciato il generale Usa Told Walters, Comandante Supremo Alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale statunitense). I droni Nato, che da Sigonella «sorvegliano» (ossia spiano) quest’area per preparare azioni militari, sono agli ordini di un altro generale Usa, Houston Cantwell.

Il premier Draghi, che considera la nuova Amministrazione Usa «più cooperativa nei confronti degli alleati», si dichiara «fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi».

C’è da esserne sicuri.

Il 17 febbraio, si è svolto in videoconferenza il primo meeting, patrocinato dal Pentagono, in cui 40 industrie militari e centri di ricerca universitari italiani offrono i propri prodotti e servizi alle forze armate Usa. Titolo dell’incontro «Innovate to Win» (Innovare per vincere). L’innovazione, spiega il Ministero della Difesa, è «la chiave di volta non solo per ottenere un vantaggio competitivo su potenziali avversari – attuali e futuri – sul piano militare, ma per il recovery del tessuto industriale nazionale al termine del periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19».

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