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Non bisogna rifiutare la vertigine della distanza né quella della prossimità

Non bisogna rifiutare la vertigine della distanza né quella della prossimitàJean Starobinski

Interviste letterarie Una conversazione del giugno 1998 con il critico letterario, morto lo scorso 4 marzo, ripercorre alcuni snodi del suo pensiero: tra questi, la polemica con chi intende la critica come «disvelamento» del senso apparente dell’opera: «non bisogna avversare ciò che è immediatamente visibile»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 10 marzo 2019

La fama di Jean Starobinski ha la qualità dei fenomeni senza tempo, che sappiamo già inscritti nel futuro della tradizione alla quale appartiene il nostro umanesimo. La successione vertiginosa dei suoi scritti, le trasmigrazioni da un sapere all’altro sempre motivate, sempre rigorosamente fondate, hanno disegnato una mappa della conoscenza dove ogni passaggio ha in ciò che lo precede e in quel che seguirà il segno polivalente di una relazione che ci chiama in causa quali interlocutori di una comunità ideale, costantemente evocata da Starobinski, attratto dall’interlocuzione almeno quanto è respinto da un pensiero pago di sé o da un artefatto narcisisticamente ripiegato sulla propria bellezza. Questa conversazione, datata 16 giugno 1998 e avvenuta a Torino, non accenna che a due o tre snodi fondamentali del suo tragitto critico, lasciandone in ombra molti altri e disertando a malincuore vaste latitudini dei suoi interessi: la biografia intellettuale di Starobinski, infatti, è passata per lunghe frequentazioni con la musica, poi è approdata alle sonorità dei testi letterari e poetici, all’esercizio della filosofìa e dunque alla medicina, in particolare alla psichiatria che gli ha aperto la parentesi, mai chiusa, dell’interesse per la mente, così che il rigore dettato dalla verificabilità scientifica ha nutrito le sue speculazioni ermeneutiche e viceversa. Parliamo qui solo, o quasi, dell’attività di critico letterario, ovvero della dialettica che, come Starobinski ha più volte sottolineato, mette in relazione il senso dell’opera con il desiderio di chi la interroga, sulla scia di un lunghisimo legame con Merleau-Ponty.
Lei consegna al testo letterario la doppia natura di un «essere» e di un «materiale». In quanto «essere», essa attende l’incontro con l’altro, in quanto «materiale» è il frutto elaborato di un lavoro. Dunque, rispettare un’opera vuol dire tener conto, a un tempo, della sua finalità intenzionale e della sua forma oggettiva. Per assolvere questo compito la critica dovrà possedere non solo adeguati strumenti interpretativi, ma anche quella «animazione finalizzata» che non si limita a registrare i rapporti interni al testo, ma riflette liberamente su di essi. Fin dove si estendono, secondo lei, i limiti di questa libertà?
È una domanda importante e difficile al tempo stesso, perché il modo in cui io ho formulato questa opposizione è un po’ astratto: se ci si porta a uno dei due estremi e si esamina il polo della intenzionalità dell’opera, ci si accorge che non si è mai sicuri di avere a che fare con un essere. Forse è una illusione, nient’altro che una nostra proiezione sull’opera stessa. Se la si considera nella sua materialità si ha – o almeno io ho – la sensazione che ci sfugga qualcosa di essenziale e che l’analisi non riesca a carpire quel che davvero importa in un testo. Ecco dunque i due limiti intrinsechi a due tipi di atteggiamento opposti, che è difficile conciliare. Allora, per un verso io parteggio per il rispetto dell’opera e perciò mi rivolgo al critico – che si trova egli stesso in una posizione intermedia tra l’atto poetico e la riflessione filosofica – ricordandogli di non dimenticare mai che si indirizza a un pubblico, il quale è libero nelle sue scelte e abita il presente. Il critico non deve scordarsi di intrattenere chi legge mettendolo a parte di ciò che egli condivide con il suo primo interlocutore – il testo letterario – di fronte al quale deve scegliere liberamente la propria voce. Ma tutto il suo sforzo risulterà vano se il rispetto filologico dell’opera non sarà più completo possibile. Questo stesso riguardo per il testo può arrivare fino a mostrare come esso non sia che un totale artefatto: per esempio nel caso in cui risulti dalla ricostruzione di un editore che mette insieme brani, appunti caotici, dando luogo a un’opera che sarà dunque impossibile ricondurre a una intenzione indubitabile.
La critica ideale non è quella che mira a farsi intima dell’autore inseguendone la complicità, né quella che pretende di possedere la totalità del testo: essa si realizza, invece, nel movimento che instancabilmente va dall’uno all’altro polo. Dunque, come lei ha scritto, «non bisogna rifiutare né la vertigine della distanza, né quella della prossimità». Quale delle due opzioni le sembra più pericolosa per la mistificazione di un testo?
Lei mi riporta a uno snodo fondamentale dei miei studi. Mi succede talvolta di porre delle antitesi e poi di tentare una conciliazione, di dire allo stesso tempo che è vero sia questo che quello, oppure né questo né quello: sono posizioni relativamente facili da adottare, perché così gli estremi vengono respinti e si cerca di pervenire a una via intermedia, a una dialettica. Come lei ha ricordato, io ho parlato di prossimità; ma bisogna ammettere due tipi di vicinanza, l’uno che consiste nel lasciarsi abitare dall’opera, nell’identificarci momentaneamente con essa lasciandola cantare in noi, come succede per esempio nel caso di un poema. È la strada che suggeriva il grande critico letterario, e mio amico, Georges Poulet. Ma c’è un’altra prossimità, simile a quella dell’orecchio applicato a uno strumento musicale, che consiste nell’avere una attenzione riflessiva e al tempo stesso carica di simpatia verso tutti i dati di un testo: verso i suoi elementi sonori, per esempio, verso il rumore della sua voce, che è allo stesso tempo qualcosa che parla del corpo e che crea un simbolo. Credo che questi due tipi di vicinanza siano complementari: dobbiamo lasciarci conquistare dalla voce di un poeta e, d’altra parte, cercare di essere attenti alla qualità dei suoni e alle loro differenze. Tutto questo implica la presenza del sentimento e insieme un giudizio pressoché immediato su ciò che sta avvenendo durante l’atto della lettura. Invece, quando parlo di distanza dall’opera letteraria, intendo dire che mi piace concepire il testo non soltanto nel suo insieme, o nell’esame delle sue grandi partizioni, bensì nel confronto con le altre opere, con il momento storico, con la società dalla quale si origina, facendone l’oggetto di uno studio che Jurij Lotman chiamava intertestuale. È qui che si verifica lo scarto tra il critico, il quale è nella posizione di uno spettatore che guarda da lontano, e il testo restituito al panorama culturale.
Per la verità, dietro la mia domanda c’era una polemica con la pretesa di una certa ermeneutica, che vorrebbe dare legittimità a qualsivoglia lettura di un’opera.
Anch’io mi trovo in una relazione polemica con queste derive ermeneutiche. In molti casi la fantasia del critico detta l’arbitrio della lettura così da rinchiuderla in una sorta di follia interpretativa. I testi, invece, di solito presentano elementi di convergenza, corrispondenze interne magari involontarie, ma tali da imporre un primo piano forte di significati. E trascinano, come un’ombra, i malintesi che le parole portano molto spesso con sé, anche nel nostro linguaggio più comune.
In che modo la sua nozione di «tragitto critico», che prevede la lettura come atto di una relazione, raccoglie e supera l’eredità del «circolo ermeneutico»?
Il circolo ermeneutico parte da una prima impressione di un oggetto culturale, per esempio un testo, ne sceglie un dettaglio o un elemento e lavora alla sua interpretazione; dopo di che riafferra quello che era il suo punto di partenza con l’intenzione di farne l’oggetto di una comprensione più completa, per arrivare a coglierlo nella sua quasi totalità. Per me, invece, c’è sempre nel testo un residuo che si sottrae all’interpretazione. Penso che nell’atto della lettura, anche se confortata da tutta la scienza di questo mondo, qualcosa venga sempre lasciato da parte. Soprattutto per quel che riguarda le grandi opere, c’è sempre qualche elemento che resta lì in un angolo, dimenticato; forse lo si ritroverà in un secondo tempo. Quel che io chiamo tragitto critico è la direzione che prende la riflessione nella lettura a partire da un oggetto che le si offre, per andare liberamente a stabilire dei punti di riferimento, che naturalmente è necessario legittimare, ma che talvolta possono essere scelti in modo discutibile, arbitrario. La lettura stabilisce un legame con l’opera, in cui il critico si avventura così come il poeta viaggia attraverso le parole; e se il critico parla di poesia può accadergli di fare egli stesso della poesia con gli elementi poetici che ha percepito nel testo. Questo è quanto ho imparato a ammirare dal mio maestro Marcel Raymond, che da Baudelaire ai Surrealisti ha costruito un suo personale tragitto critico. Io stesso mi lascio guidare da alcuni temi: per esempio, quando ho lavorato sul fiore segreto e solitario, stabilendo una relazione tra il poema tedesco la Rosa di Natale di Mörike – un fiore che sembra sorgere ai confini con la morte – e la ginestra di Leopardi che nasce ai bordi di un vulcano. Se scelgo di confrontare questi due testi è perché vi trovo due espressioni contemporanee dell’individuo di fronte alle forze della natura, di fronte alla vita e alla morte: sono io, con la mia lettura critica a stabilire il legame. Certo, dovrò motivarlo portando delle prove, ma questo è altro dal lasciarsi determinare dagli elementi di un testo: sta qui la diversità con il circolo ermeneutico.
Secondo una affermazione contenuta nella critica stilistica di Leo Spitzer, ci sarebbe una sostanziale omogeneità tra il livello psichico e il livello linguistico di un’opera. Cosa la avvicina e cosa la allontana da questa posizione?
Bisogna essere estremamente sensibili alle differenze tra epoche lontane e tra opere diverse. Nella storia si sono succeduti atteggiamenti psicologici convenzionali che preesistevano ai testi, così come i generi letterari erano antecedenti alle espressioni cui davano di volta in volta attualità: ci sono situazioni date, rispetto alle quali il poeta non fa che inventare delle variazioni. Non è la sua esperienza psicologica individuale a essere implicata, quanto un atteggiamento che appartiene alle convenzioni del tempo: così avviene, per esempio, nella poesia amorosa medioevale, o in certi componimenti poetici rinascimentali. Allorché sopravviene il sentimento personale, la psicologia individuale acquista importanza; ma non bisogna dimenticare che, allo stesso tempo, essa funziona secondo alcuni codici prestabiliti. Perciò penso che sia necessario diffidare di un certo psicologismo naif, che cerca di scovare l’anima dell’uomo dietro qualsivoglia opera. La considerazione secondo cui il testo letterario comporta un aspetto di distruzione delle convenzioni interiori e di libera invenzione di un’altra concezione del mondo, è un fatto tutto moderno.
Lei ha scritto che il giudizio di valore sulle intenzioni dell’autore non deve mai essere assente dalla lettura critica. Dunque, non crede alla necessità di analizzare il testo come un elaborato separato dalla intenzionalità dell’autore?
Credo che la neutralità indefinita del critico non sia più augurabile di un atteggiamento normativo; ricordando ovviamente che anche i criteri di moralità sono molto mutevoli. Certo, non identifico il compito della critica con la separazione di quel che è accettabile da ciò che non lo è. Tuttavia, credo che i critici abbiano il diritto di far valere le loro scelte etiche, pur rispettando gli autori. Tutto ciò è evidentemente molto difficile. La critica può tranciare un primo approssimativo giudizio scandalizzato e poi, pervenendo a una lettura più esaustiva dei significati, mostrare come testi che hanno una loro forza siano meno patologicamente distanti da quel che imporrebbe una certa idea dell’etica: penso per esempio a tutte le opere in cui l’essere umano è rappresentato semplicemente come oggetto di piacere; di un piacere magari crudele, come in Sade, autore che io non amo particolarmente e al quale non mi sono mai applicato. Tuttavia, egli è l’espressione di una virtualità che non va misconosciuta. Bisogna sapere che tutto quel che Sade descrive esiste e può avere un suo aspetto fiammeggiante. Così come penso a tutta la patologia dell’ossessione che si esprime nel dettaglio e che si ritrova anche in alcuni pittori.
Torniamo alla relazione tra corpo vivente e corpo testuale. Come riassumerebbe il rapporto che lega la scrittura e la pittura alla malinconia?
Ricondurrei volentieri tutto a una certa idea di energia; ma non è che una immagine, e del resto non intendo certo riferirmi ai principi della fìsica. Potremmo forse, più utilmente, usare la parola forza, ugualmente approssimativa ma privilegiata da Nietzsche: ancora una volta, un autore di cui non sono un adepto, tuttavia trovo che in certi usi della lingua ha permesso di mettere in evidenza parole forti. Dunque, la scrittura, la pittura, la malinconia hanno tutte a che fare con l’energia, con forze che possono sovrabbondare o rivolgersi contro se stesse o, ancora, inaridire. La malinconia è essenzialmente un prosciugamento della forza interiore. Ed è nelle aperture di questo inaridimento, nelle sue minacce, in questo rischio rappresentato dal trionfo del nulla, che si definisce l’angoscia culturale della malinconia. È qualcosa che rimanda all’avvicinarsi di una voragine, ma non ha nemmeno il calore di un baratro vulcanico: ha a che fare con le illusioni, con la sensazione del freddo, del buio. Il nucleo della malinconia è una sorta di intensa incapacità di formulare ogni pensiero, c’è come un buco intorno al quale stanno delle figure: sono le figurazioni dell’angoscia. Dunque, questa fuga dell’energia psichica suscita delle risposte da parte dei poeti, i quali cercano di scongiurare il pericolo dandogli delle forme, delle figurazioni.
Prendiamo una coppia di concetti fondamentali, nel suo discorso critico, per definire lo spazio di un’opera: «verità» e «apparenza». In polemica con chi intende la critica come «disvelamento» del senso apparente dell’opera, lei dice che non bisogna diventare avversari di ciò che è immediatamente visibile: perché solo accettando criticamente il velo si darà una chance a un secondo, più approfondito, sguardo. È un discorso che rimanda al tema della maschera, da lei lungamente frequentato.
Sì, ho cercato di mostrare questo discorso attraverso l’esempio di Montaigne, un tipico nemico delle maschere sulla scia dei moralisti antichi. Ma alla fine, Montaigne si riconcilia con le apparenze, perché quel che gli importa è la relazione. Attraverso tutto ciò che si offre nell’apparenza immediata, nella sua ingenuità e insieme nel suo artificio, forse è possibile scorgere una sorta di contratto di coesistenza con il mondo e con l’altro: è una convenzione, ma di tipo conversazionale, come quella che si ha tra amici. L’amicizia deve vivere di maschere accettate, deve nutrirsi di illusioni. Illusioni che certamente vengono riconosciute come tali, ma che non per questo ci si deve sforzare di distruggere. Bisogna avere, in qualche modo, pietà delle apparenze, e non essere soltanto loro nemici.

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