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Non arrendiamoci al capitalismo cognitivo

Non arrendiamoci al capitalismo cognitivoFrancesco Vezzoli, Self Portrait as Apollo del Belvedere’s (Lover), 2011

Cassette degli attrezzi Ha inizio con questa pagina una discussione mirata a indagare la patente caduta in disgrazia della teoria letteraria; ciò che coincide, nella migliore delle ipotesi, con una ratifica politica dell’esistente

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 22 aprile 2018

Chiariamo subito un punto: si parla anche di voi, o meglio di tutti noi. La scomparsa della critica letteraria dalla scena pubblica non è un problema da accademici spocchiosi o letterati ingobbiti sulle sudate carte. Perché l’eclissi di una disciplina di per sé irrilevante per i destini del mondo racconta una storia molto più grande, grida con la forza del sintomo una perdita ben più grave: lo spirito critico della modernità illuminista, l’aspirazione kantiana a camminare eretti e a rivendicare l’uso pubblico della ragione: sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.

Una parola-chiave della modernità
Perciò non è affatto semplice indicare cause e moventi di questo processo apparentemente irreversibile: significherebbe raccontare la crisi stessa della modernità. La critica letteraria nasce infatti con il pensiero moderno: «si emancipa» in quanto disciplina autonoma quando la ragione occidentale mette in discussione un assetto millenario, articolandosi in una serie di discipline che vanno a costituire l’episteme del moderno: psicologia, antropologia, sociologia, economia politica, estetica e appunto critica letteraria. Anche l’espressione «crisi della critica» che da almeno venticinque anni segna periodicamente il dibattito culturale, peraltro senza scalfirlo, ha qualcosa di tautologico. Crisi, ci ha spiegato un filosofo della storia come Reinhart Koselleck, è una parola-chiave del vocabolario della modernità, è anzi «la chiave interpretativa centrale tanto per la storia politica quanto per la storia sociale» almeno a partire dalla Rivoluzione francese.

E dunque la critica letteraria, come declinazione specifica dello spirito critico moderno, è in crisi per definizione. Lo ha ricordato a suo tempo Mario Lavagetto sulla scorta di Paul de Man: la crisi della critica ha natura «endemica», coincide cioè con l’esistenza stessa di questa disciplina, come rivela peraltro la comune derivazione etimologica dei termini critica e crisi dal verbo greco kríno, che copre un duplice campo semantico: da un lato «separare», dall’altro «scegliere», «decidere», «giudicare». In altri termini, la crisi è una condizione strutturale dell’esercizio critico, la sua ragione d’essere; e non esiste critica autentica che non viva in una situazione di instabilità categoriale, che non rimetta continuamente in discussione i presupposti, i metodi e gli obiettivi del suo operato.

Viene quindi da pensare che la crisi della critica in cui si macerano da anni tanti intellettuali non sia affatto una crisi ma piuttosto una paralisi, una sclerosi progressiva, il lento e inesorabile svuotamento di quel vitale nesso semantico: la critica langue e muore (o si suicida più o meno consenziente, come ha diagnosticato Lavagetto in Eutanasia della critica) proprio perché non è più in grado di essere e di mettere in crisi, o forse perché, più in generale, il concetto di crisi con cui interpretiamo compulsivamente il nostro presente ha perso le sue valenze anche positive, di cesura drastica, momento di fine e di inizio, spinta al cambiamento, impantanato nella visione malinconica di un presunto declino.
Nulla avviene per caso
C’è poi una causa più circoscritta che ci induce periodicamente a chiederci «dove siamo?», come nel titolo di un bel libro collettivo sulle «nuove posizioni della critica» di Giancarlo Alfano e altri studiosi. È una causa iscritta nell’evoluzione (o involuzione) degli studi letterari negli ultimi decenni del Novecento, quando si consuma il fallimento di un programma critico, modellato sulla linguistica, che voleva fondare una scienza «forte» della letteratura, basata su metodi e protocolli affini a quelli delle scienze naturali. Sono i decenni in cui una certa teoria letteraria di matrice soprattutto francese raggiunge al tempo stesso il culmine e il punto di non ritorno, trionfa mentre nutre i germi della sua distruzione, sacrifica tutto al miraggio utopico e inevitabilmente fallimentare di mettere a punto una mathesis universalis del sapere letterario. Lo scacco grandioso e catastrofico di questa aspirazione all’universale, di quest’ultimo progetto illuminista ha prodotto effetti a catena che è impossibile descrivere nel dettaglio. Ma a grandi linee ne è uscita una contrapposizione nefasta tra due tendenze che segnano il panorama attuale degli studi letterari: da un lato la chiusura specialistica, l’arroccamento difensivo nei propri minuscoli appezzamenti disciplinari, dove si continua felicemente (?) a lavorare senza farsi troppe domande, impermeabili al mondo, protetti da un sapere che si autogiustifica con il vecchio e ormai inservibile scudo della tradizione; dall’altro la tuttologia, la letteratura come pretesto per parlare d’altro, il goffo e spesso patetico inseguimento delle mode e dei consumi culturali, in un tentativo di innovare concetti e linguaggi per adeguarsi alle richieste dell’ideologia dominante, cioè l’unica rimasta: il mercato.

A venir meno è appunto lo spazio intermedio, il luogo deputato della critica, cioè di un discorso tecnico e specializzato sulla letteratura che ambisca a un senso più ampio, collettivo, nei termini sempre più inattuali del bene comune e dell’uso pubblico della propria ragione. Ne è sintomo perfetto, con il lucido cinismo che solo il mercato può avere, la scomparsa pressoché totale della saggistica letteraria dall’orizzonte editoriale, e anche fisicamente dagli scaffali delle librerie. Agli studi letterari di tipo accademico non resta così che alimentare in modo compulsivo il canale parallelo, ormai del tutto drogato, delle edizioni a pagamento, da dare in pasto alle commissioni di concorso e a quella macchina impazzita che si chiama «valutazione della ricerca scientifica» (potrei citare decine di messaggi promozionali di editori più o meno improbabili che offrono di pubblicare qualunque libro, a prezzi modici, in tempo utile per le scadenze dell’Abilitazione Scientifica Nazionale).
Certo, non c’è da fare le vittime o rimpiangere nostalgicamente il bel tempo perduto.

ulla, ovviamente, avviene per caso. E in fondo non è tutta colpa dei critici e degli studiosi di letteratura, pure molto inclini al suicidio assistito. Parte di un problema ben più ampio, l’agonia attuale della critica letteraria può essere letta come un sintomo di enormi trasformazioni politiche, sociali, economiche, culturali e tecnologiche che i nostri strumenti interpretativi non sono in grado di capire e tantomeno di governare. Calvino, Fortini e Pasolini sono morti, d’accordo (e anch’io non mi sento tanto bene, direbbe Woody Allen), ma non è questo il punto. A mancare non sono i cervelli ma una sorta di tessuto neuronale diffuso, senza il quale anche le grandi figure che hanno segnato la storia intellettuale del Novecento, se rivivessero oggi, sconterebbero una condizione di malinconica irrilevanza.
La critica non sa più parlare perché è scomparsa una certa società letteraria, una comunità di lettori che condivideva gli stessi valori, saperi e orizzonti culturali, un pubblico (sicuramente ristretto, ma vivo e riconoscibile) con cui istituire un’intesa comunicativa immediata. (Quel che sta succedendo sul web è un fenomeno diverso, che nessuno è ancora riuscito a mettere a fuoco).

Dobbiamo seppellire l’umanesimo
La società che ha costituito la «letteratura» in quanto oggetto di un sapere, concetto identitario e pedagogico, luogo del valore e fulcro del sistema educativo, non esiste più, e non è detto che sia per forza un male. Ma è un lutto che bisogna elaborare al più presto. Dobbiamo seppellire una volta per tutte l’umanesimo, rinunciare ai diritti di primogenitura culturale per combattere una battaglia di resistenza, e non solo di retroguardia, nell’economia di quello che ormai si chiama «capitalismo cognitivo», dove la produzione e la gestione delle conoscenze – scienza, ricerca, cultura, arte, letteratura, insegnamento – entrano in una logica di scambio, profitto, competizione e accumulazione del capitale cognitivo globale. È quel che ci è toccato in sorte: micro-pratiche, tattiche congiunturali, piccoli gesti resistenti che spezzano gli automatismi, inceppano gli algoritmi, costringono un paio di studenti a farsi domande nuove, contrappongono a un mondo che non ha alcuna voglia di essere interpretato quell’atto congiunto di lacerazione e giudizio che è iscritto nel concetto e nella storia della critica letteraria. Non posso dire di essere ottimista, ma credo che ne valga ancora la pena.

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