Panorama, una rivista che molti anni fa era rispettabile, il 3 maggio 2023 è uscita con una copertina che strillava Un’Italia senza italiani, illustrata dall’immagine di una penisola in nero sovrastata da facce arabe e africane, e accompagnata da una didascalia ai limiti dell’incitamento all’odio: «Dai ghetti di Campania e Puglia alla ‘banlieue alla francese’ di Milano e Roma, dove l’integrazione è ormai impossibile tra degrado e criminalità. Al di là delle polemiche sulla ‘sostituzione etnica’, vince la realtà. Ecco la mappa di un Paese in cui l’immigrazione disordinata o clandestina ha strappato il tessuto sociale».

A QUANTO PARE, siamo «al di là della polemica», semplicemente perché la «sostituzione etnica» è «realtà». Ora, questa è paranoia pura: basta guardare in giro per vedere che la stragrande maggioranza delle persone intorno a noi non sono immigrati e non sono arabi o africani. Ma nell’ideologia della purezza razzista, la sola presenza di un elemento di diversità è sufficiente a far sentire contaminato il tutto. Ora, questa paranoia, sempre più fuori controllo in quelli che scrivono certe cose e strumentalmente alimentata in quelli che le leggono, è sempre più invasiva in questi tempi (ben prima dello sventurato ministro Lollobrigida, di «sostituzione etnica» hanno parlato ripetutamente tanto Matteo Salvini quanto Giorgia Meloni). Ma viene da una storia molto più lunga.

NEL 1916, UN AVVOCATO di nome Madison Grant pubblicava negli Stati Uniti un libro destinato a uno straordinario successo: The Passing of the Great Race, la scomparsa della «grande razza». La «razza» minacciata, in quel momento, era quella anglosassone; chi la minacciava erano gli immigrati slavi, ebrei, e, soprattutto, italiani. Secondo il manuale di storia americana usato fino agli anni ’70 nella mia facoltà, «La maggior parte degli Americani… quando pensano agli immigranti, rievocano visioni di Italiani olivastri, di barbuti ebrei o di contadine polacche nei loro scialli multicolori». Sottolineerei «olivastri»: gli italiani non erano «razza bianca»; nelle piantagioni del Sud, i braccianti erano divisi in tre categorie – bianchi, neri, e italiani. Grazie a Madison Grant e ai suoi numerosi epigoni, di lì a pochi anni le leggi sull’immigrazione provvedevano a proteggere la «grande razza» sbarrando gli ingressi agli italiani e altri indesiderabili.

ADESSO, DUNQUE, siamo noi olivastri «figli di Annibale» (come dicevano Malcolm X e gli Almamegretta), a sentire minacciata la sopravvivenza della nostra «grande razza». Fa un certo effetto vedere che, sebbene gli immigrati provenienti dall’Africa siano poco più di un quinto del totale (22,2%), la copertina paranoica di Panorama espone solo persone di pelle scura: segno che si tratta di tradizionale e volgare razzismo biologico, e non di quel suo cugino ripulito che va sotto il nome di razzismo culturale. Ci minacciano i profughi dal Sudan, non quelli dall’Ucraina; ci minacciano i senegalesi, non i polacchi. A rischio non è la nostra «cultura», sono proprio i nostri purissimi geni italici.

E ALLORA, GUARDIAMOCI un attimo, uno per uno. Io sono italiano, e mi sta benissimo. Il mio cognome, però, viene da Malta, crocevia di miscugli nel mezzo del Mediterraneo, fra Africa del nord, Medioriente, Europa del sud. In più, stando al portale ufficiale del governo maltese, il cognome Portelli arriva a Malta dalla Spagna nella seconda metà del ‘400, quando lì già si cominciavano a espellere gli ebrei: a Smirne, in Turchia, esistono famiglie sefardite che si chiamano come me. Da Malta, il cognome Portelli migra sulla costa sud della Sicilia: per esempio, è uno dei più diffusi a Scicli, terra di Montalbano e del padre di mio padre.
Mia nonna paterna, invece, era di Agrigento, ma non era olivastra bensì bionda e con gli occhi azzurri: segno che, oltre agli arabi, in Sicilia hanno lasciato il segno pure i vichinghi. Per fare un normale italiano come me, insomma, ci si sono messi arabi, africani, spagnoli, ebrei, scandinavi… E dovrei sentirmi minacciato da gente che potrebbe essere mia parente?
Ho detto chela paranoia della sostituzione etnica non sente come minacce primarie ucraini, ebrei, contadine polacche, o altre persone chiare – almeno per ora. Ma le vie del razzismo sono infinite: una società che ha bisogno di razzismo è sempre pronta a sostituire un bersaglio con un altro o a inventarselo; nessuno è al sicuro (ricordiamoci di quello che abbiamo letto e sentito, prima che ci fossero abbastanza africani con cui prendersela, sui rumeni, sugli albanesi, sui polacchi petulanti pulitori di vetri. E ricordiamoci le leggi razziste di cui sono figli e nipoti gli allarmisti odierni della «sostituzione etnica»).

IN UN ROMANZO afroamericano (George Schuyler, Black No More, 1931) si racconta di uno scienziato che inventa un procedimento che sbianca i neri, e per un po’ mette in crisi la struttura razzista su cui si regge il paese– fino a quando ci si accorge che i bianchi «artificiali» sono leggermente più chiari di quelli «naturali», e tutto ritorna normale, segregando e discriminando chi ha la pelle troppo bianca. Fantascienza, satira? Mi racconta una amica e compagna nata in Polonia, vissuta in Italia tutta la vita, che quando stava alle medie un’insegnante le consigliò di mettersi un fondo tinta scuro perché era «troppo bianca». Non facciamo confusioni: noi italiani purosangue siamo bianchi, sì, ma senza esagerare. Olivastri, direi.